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"Adelchi" di Manzoni, atto II scena IV: analisi del monologo di Carlo

Il monologo di Carlo dell’atto II, scena IV, vv. 284-315, presenta il primo personaggio della tragedia alle prese con conflitto di coscienza (a questo seguirà il conflitto, assai drammatico, di Adelchi nell’atto III e quello di Guntigi nell’atto IV). Carlo, dopo le informazioni del diacono Martino, abbandona lo scoramento che lo aveva dominato davanti all’impossibilità di sconfiggere in campo i Longobardi e all’inevitabile abbandono dell’impresa. Egli è il sovrano, uno dei “grandi” cui guardava Svarto, anzi il più grande nella situazione illustrata dal testo. Parla infatti di se stesso in terza persona, come a esprimere il senso grande che ha di sé, e, autentica espressione del potere e dell’orgoglio, rivela l’impossibilità da parte sua di accettare il colpo di una sconfitta che avrebbe reso il suo “nome” oggetto della derisione del nemico e dei secoli futuri. Avendo però ora trovato una via per trionfare, ecco che egli non ha nemmeno l’umiltà di ammettere di dovere ad un oscuro diacono la vittoria che di nuovo gli arride (vv. 291-299).

Dichiara invece di dovere tutto ad una sorta di destino di elezione, una “stella” che scintillava al suo partire, che altro non è che l’oggettivazione della sua brama di potenza. È vero che difende il Papa contro la prevaricazione ingiusta dei Longobardi, ma è altresì vero che usa Dio come una giustificazione, una maschera con cui occultare le vere ragioni del suo operato, cioè la volontà di potenza e la ragion di Stato, vera etica che detta i principi del suo agire. Sull’altare della sua volontà di potenza infatti non ha esitato a sacrificare Ermengarda, nei confronti della quale nutre tuttavia un rimorso acuto, un conflitto di coscienza che nasce dalla consapevolezza del male da lui operato. Eppure non ha incertezze nello strumentalizzare Dio e nell’arrogarsi il diritto di interpretarne i disegni a proprio vantaggio (vv. 299-305 ): Dio ha riprovato la casa della donna, dichiara a a se stesso, e con questa giustificazione interessata si assolve, davanti alla propria coscienza, per la condotta crudele nei confronti della donna. Occulta così la consapevolezza di una condotta spregiudicata e crudele confondendo consapevolmente il proprio sguardo con lo sguardo di Dio. Tanto è vero che, nella conclusione del monologo, confessa che un re non può curarsi, quando deve agire, di tutti i dolori che la sua azione causerà agli altri, poiché “Un re non puote | correr l’alta sua via, senza che alcuno | cada sotto il suo pié” (vv. 311-313 ). Alla fine Ermengarda, emblema di un rimorso di coscienza, vittima innocente della logica del potere, appare a Carlo come un fantasma che, ormai neutralizzato dagli autoinganni della coscienza, si dilegua allo spuntare del nuovo giorno.