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"I promessi sposi", capitolo 8: riassunto e commento

Introduzione


Il capitolo VIII de I promessi sposi, ambientato tra la sera e la notte del 10 novembre 1628, descrive il tentativo di nozze segrete tra Renzo e Lucia e il fallito rapimento di Lucia da parte di “bravi” di don Rodrigo. In seguito, i due protagonisti e Agnese scappano in direzione del convento di Pescarenico di fra Cristoforo e Lucia, consapevole che non rivedrà per lungo tempo i luoghi della sua vita, si abbandona all’addio ai monti, mentre la barca percorre la riva destra dell’Adda.


Riassunto


Il capitolo VIII de I promessi sposi si sviluppa su alcune grandi sequenze narrative, che si riuniscono poi in una sequenza centrale: il tentativo di Renzo e Lucia di sposarsi di nascosto e di sorpresa; il tentato rapimento di Lucia da parte dei bravi; e il tardivo intervento di Menico, mandato da Fra Cristoforo, per avvertire i giovani dell’arrivo dei bravi. Questi tre eventi sono destinati al fallimento. In questo capitolo viene presentata quella che Manzoni stesso definisce “la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi”, in cui vengono concentrati tutti e tre questi fattori.

Nella prima sequenza i due testimoni Tonio, debitore di Don Abbondio, e Gervasio giungono a casa del curato. Mentre Agnese distrae Perpetua, Renzo e Lucia si introducono di nascosto nella dimora di Don Abbondio, cercando di obbligarlo a sposarli, pronunciando di fronte a lui la fatidica frase. Il curato tuttavia, spegnendo le candele e iniziando a gridare, mette in fuga i due sposi. Perpetua viene allertata dai rintocchi della campana suonata dal sagrestano. Manzoni mette qui in luce l’ingiustizia di cui sono vittime Renzo e Lucia; il capovolgimento dei ruoli tra oppressori ed oppressi - dice ironicamente il narratore in una breve pausa riflessiva - è un costume tipico del “secolo decimo settimo”:

Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo 1.

Il suono delle campane battute a martello dal sagrestano Ambrogio spostano la narrazione sul tentativo di rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo 2, e degli spostamenti dei protagonisti principali. La missione del “signor Griso” e della sua “truppa” 3 si conclude però in maniera quasi comica: gli sgherri del Griso non trovano nessuno, se non il povero Menico, un ragazzino inviato da Agnese e Lucia da fra Cristoforo (cui un servo di don Rodrigo aveva svelato i piani del nobilotto spagnolo), per avvisarle del grave pericolo. I “bravi”, spaventati dal suono delle campane e dal timore d’essere scoperti, lasciano fuggire Menico e vengono trattenuti a stento dal Griso, prima che fuggano terrorizzati.

Il narratore sposta però un’altra volta il suo occhio, concentrandosi su quel che avviene a Perpetua e Agnese; la madre di Lucia, che ha distratto la serva di don Abbondio per facilitare il matrimonio segreto, incrocia Renzo e la figlia (con Tonio e Gervaso al seguito). Menico, che sopraggiunge di corsa, li indirizza da fra Cristoforo, che saprà provvedere al loro destino; nel frattempo, gli abitanti del paese si radunano sotto casa di don Abbondio e poi marciano su casa di Agnese.

L’arrivo dei tre personaggi rincuora fra Cristoforo, che fa entrare due donne nel convento nonostante gli scrupoli dello zelante fra Fazio, preoccupato dall’applicazione letterale delle regole del convento 4. Fra Cristoforo convince innanzitutto Renzo e Lucia a sopportare la situazione:

È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade 5.

e li convince poi a lasciare il paese: Lucia andrà in un convento poco distante dal paese, mentre Renzo troverà rifugio in un convento di Milano. Il capitolo si conclude con il celebre “Addio ai monti”, una delle parti più liriche del romanzo, in cui il narratore esterno presenta, come mediatore tra personaggio e lettore, i tristi pensieri di Lucia, mostrandone i sentimenti e la commozione.


L’ironia e il comico nel capitolo ottavo dei Promessi sposi


Il capitolo ottavo dei Promessi sposi, uno dei più movimentati e ricchi di avvenimenti di tutto il romanzo, è caratterizzato da una fitta presenza di elementi comici ed ironici, che fanno quasi da controcanto alla drammaticità degli eventi rappresentati.

L’incipit del capitolo è dedicato a don Abbondio, che si intrattiene nella lettura di un “panegirico in onore di san Carlo” 6, interrotta con la nota battuta sull’ignoto Carneade:

“Carneade! Chi era costui?” 7

L’ironia contiene qui un sottofondo amaro: il personaggio pare più preoccupato di capire chi è lo sconosciuto filosofo piuttosto che di svolgere il proprio compito, tutelando la libertà di Renzo e Lucia. Il prevalere in don Abbondio degli interessi materiali è esplicito anche nel dialogo a botta e risposta con Tonio, che intrattiene il curato per permettere ai due protagonsiti di penetrare in casa e pronunciare la formula matrimoniale 8. E naturalmente comica sarà la caotica scena del “serra serra” 9 successiva al fallito matrimonio di Renzo e Lucia, con i goffi tentativi di don Abbondio di salvarsi e di chiedere aiuto.

L’elemento comico, con punte di sarcasmo da parte del narratore, è evidente anche quando compaiono in scena il Griso e i suoi “bravi”. Il primo si traveste da innocente pellegrino e, in maniera antifrastica, dice ai suoi uomini di muoversi “da bravi” 10; gli altri, quando sono presi dal panico per il rumore delle campane, sono colpiti da un paragone degradante del narratore, che li accomuna a una mandria di porci allo sbando:

Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s'avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto 11.

È infine da notare che ogni sequenza narrativa del capitolo si conclude con un sostanziale insuccesso: Renzo e Lucia non riescono a sposarsi, i “bravi non rapiscono la preda ambita da don Rodrigo, fra Cristoforo non può avvisare in tempo i “promessi sposi” del rischio che corrono. È una dimostrazione, per Manzoni, che la volontà e i desideri degli uomini sono spesso sconvolti dal caso, e che il “cuore” umano sa poco o nulla del grande ed inestricabile mistero del mondo:

Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto 12

1 A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano, Principato, 1988, pp. 167-168.

2 Si tratta tecnicamente di una analessi, cioè la narrazione di eventi antecedenti al momento della narrazione, e che interrompono il racconto in corso.

3 A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 169.

4 Manzoni si concede qui una riflessione generale (ivi, p. 179: “«Omnia munda mundis,» disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l'effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi”), indicando che, più che per lo spirito di carità di Cristoforo, fra Fazio è convinto dal senso ignoto delle parole da lui proferite.

5 Ivi, p. 179.

6 Ivi, p. 162. Il panegirico è un discorso, di tono esagerato e retorico, con finalità encomiastica nei confronti di un potente o di una figura illustre.

7 Ibidem. Carneade (214-129 a.C.) è un filosofo greco della scuola scettica.

8 Quando Tonio chiede la restituzione del proprio pegno dopo il pagamento del debito, don Abbondio, di natura timorosa ed ipocrita, si lascia andare ad una considerazione quasi paradossale: “Anche questa! [...] le sanno tutte, Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?” (ivi, p. 365).

9 Ivi, p. 167.

10 Ivi, p. 169.

11 Ivi, p. 172.

12 Ivi, p. 181.