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La filosofia di Nietzsche e la storia: le “Considerazioni inattuali”

L’originalità provocante (e per certi aspetti profetica) della critica nietzschiana alla cultura occidentale, assoggettata alla metafisica platonica e all’esegesi paolina della figura di Cristo, traspare da molti scritti che seguono l’esordio filosofico del pensatore prussiano, e cioè quella Nascita della tragedia che identificava nello spirito dionisiaco il potente “antidoto” con cui reagire alle mistificazioni della visione del mondo dominante, da “smascherare” e svelare nelle sue ipocrisie.

 

Le quattro Considerazioni inattuali - e in particolar modo la seconda, Sull’utilità e il danno della storia per la vita del 1874 - coltivano così il gusto aforistico e polemico con cui Nietzsche ribalta le posizioni classiche dello storicismo filosofico; l’esaltazione nietzschiana della vita, cui occorre dire entusiasticamente “sì”, diventa condanna del sapere storico basato esclusivamente su quel nozionismo che incatenerebbe l’uomo contemporaneo al “ricordo”, mentre è l’oblio (prerogativa e dono degli animali) ad assicurare il rifiorire perenne della vita (con toni che già prefigurano l’“eterno ritorno” della fase della maturità). Ecco come Nietzsche ci descrive quest’antitesi tra uomini e bestie:

 

È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via - e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve sempre come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione. [...] L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello.

Per sgravarsi da questo “fardello” e per vivere attivamente nel presente (e cioè: per raggiungere la felicità), Nietzsche afferma che bisogna saper dimenticare, o più precisamente il “sentire in modo non storico”:

 

è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’animo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigine e paura come una dea della vittoria, non saprà mai cos’è la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri.

La reazione nietzschiana alla “cultura moderna” mira appunto al suo svecchiamento, al lasciar per strada la “enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi”; gli atteggiamenti positivi nel rapporto con il passato (quello monumentale, quello antiquario e quello critico, che pure hanno i loro risvolti negativi) non sono però frutti sterili di una polemica fine a se stessa, ma sostengono l’ideale di una cultura viva ed attiva, in perenne indagine antidogmatica del mondo (“La nostra cultura moderna non è niente di vivo proprio per questo [...] essa si ferma al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, non ne viene fuori una risoluzione di cultura”). Ed è in tal senso che le considerazioni Sull’utilità e il danno della storia per la vita possono anche concedersi un sarcastico ritratto dell’uomo di cultura contemporaneo:

 

Noi moderni infatti non caviamo niente da noi stessi: solo riempiandoci e stipandoci di epoche, costumi, arti, filosofie, religioni e conoscenze estranee, diventiamo qualcosa degno di considerazione, ossia enciclopedie ambulanti, come forse ci considererebbe un antico greco sbalestrato nella nostra epoca.