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I "Sonetti" di Foscolo: "Autoritratto", analisi e commento

Parafrasi Analisi

Lettura e analisi del sonetto Autoritratto di Ugo Foscolo, a cura di Matteo Pascoletti.

Il sonetto, anche conosciuto come Solcata ho la fronte, è un componimento importante nella produzione di Foscolo, anche per l'arco di tempo delle diverse stesure: la prima risale al 1802, versione leggermente modificata nel 1803; viene rifatta nel 1808, dopo la pubblicazione dei Sepolcri. A distanza di anni Foscolo riprende la lavorazione del sonetto tra 1821 e 1824; l'ultima versione del componimento risale a quattro mesi prima della morte dell'autore, quindi nel 1827. In quest'opera si manifesta la necessità per Foscolo di autorappresentazione poetica nell'arco di venticinque anni. Modello di questo sonetto è il componimento autobiografico di Vittorio Alfieri il Sublime specchio di veraci detti.

Il poeta si descrive, presentando il suo aspetto fisico e il suo carattere: ha la fronte alta, solcata da rughe, i capelli rossi, i denti bianchi, un corpo proporzionato; si veste elegantemente; agisce velocemente; ha un carattere impulsivo e tenace, è sempre in lotta con il destino. Foscolo chiude il componimento affermando che solo con la morte potrà trovare la fama e il riposo, tema che ricorre in tutti i sonetti. Tuttavia questi versi furono modificati nell'ultima riedizione, in cui scompare la parola "fama".

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Buongiorno. Oggi vedremo il sonetto Autoritratto conosciuto anche come Solcata ho fronte. Si può evincere l’importanza di questo sonetto dall’arco di tempo che impegnano le varie stesure: la prima stesura è del 1802, versione che viene leggermente modificata nelle due edizioni del 1803; viene poi rifatta nel 1808 dopo la pubblicazione de I sepolcri. A distanza di anni Foscolo vi lavorerà per un’edizione che possiamo considerare definitiva dal 1821 al 1824, tuttavia l’ultima versione che noi conosciamo risale a 4 mesi prima della morte dell’autore, 8 maggio 1827. Il bisogno di Foscolo di autorappresentarsi attraverso il verso poetico a più riprese si manifesta nell’arco di 25 anni quindi possiamo dire che, a prescindere dai vari mutamenti delle diverse versioni, questa esigenza è una costante della sua vita tant’è vero che nella sua raccolta il sonetto è in posizione centrale, un monumento statuario che svetta nel corpus poetico delle sue rime. Vado a leggere brevemente:

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;

giuste membra, vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti,
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi.

Talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:

di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.

Questo è il testo della prima stesura del 1802. Nella versione del 1821-1824, il principale cambiamento si ha quando invece di dire “Di vizi ricco e di virtù, do lode alla ragion, ma corro ove al cor piace”, accentua il contrasto tra l’anima razionale e quella più passionale perché dice “cauta in me parla la ragion”, come se fosse timida e timorosa, “ma il core ricco di vizi e di virtù delira”, quindi se prima avevamo il poeta che “corre dove al cor piace”, qui abbiamo il cuore che delira e che quindi è una guida imprescindibile nelle scelte del poeta. La parafrasi è abbastanza semplice perché abbiamo un’elencazione di attributi: "Ho fronte solcata, occhi cavati e intensi, capelli biondi, guance pallide, aspetto audace, labbra grosse e colorite, denti puliti [“tersi”], capo chino un bel collo e un torace largo [“il largo petto” che diventerà poi “irsuto” nella versione del 1821-1824]. Membra proporzionate [“giuste membra”], vestiario semplice, ma curato, passi, pensieri, gesti e parole rapidi, semplice, ma leale generoso e sincero, in lite con il mondo e con gli eventi avversi [avverso al mondo, avversi a me gli eventi]. Valoroso nel parlare e spesso anche nell’azione, malinconico e solo la maggior parte del tempo e sempre pensoso, pronto, facile all’ira, senza riposo e tenace, ricco di vizi e virtù, ammiro la ragione, ma seguo ciò che piace al cuore [“do lode alla ragione, ma corre ove al cor piace”]. Solo la morte mi darà fama e riposo". 

Attenzione: l’idea che solo la morte possa dare fama e quindi gloria eternatrice e riposo è presente in tutti i sonetti. Nell’ultima versione però scompare la parola “fama” e abbiamo: “e sol da morte aspetterò riposo”, quindi attendo e non avrò. Si attenua quasi questo gesto di sfida nei confronti della morte e nell’ultima versione si ha un Foscolo un po’ più malinconico e disincantato rispetto all’idea che il poeta, attraverso le proprie opere, possa avere una gloria eternatrice. C’è solo l’attesa della “fatal quiete” che abbiamo visto ne La sera e ne "il nulla eterno". La principale ed esplicita influenza in questo sonetto è il sonetto autobiografico di Alfieri, Il sublime specchio di veraci detti; una differenza è che nel sonetto di Foscolo è presente un autoritratto quindi c’è un auto-dipingersi attraverso le parole; la metafora del sonetto di Alfieri, invece, è quella dello specchio quindi le parole mirano a restituire la realtà così com’è. Leggiamo velocemente il sonetto di Alfieri, abbastanza semplice da non richiedere la parafrasi:

Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;

sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

In entrambi i sonetti si tende a procedere dall’esteriorità alla dimensione interiore mentre nella descrizione fisica, dall’alto verso il basso, dalla testa ai piedi. Foscolo, per esempio, dal verso 1 al verso 6 si dedica alla descrizione fisica per poi passare all’interiorità. Qual è la differenza principale? Alfieri non nasconde i suoi possibili difetti che riducono la statura morale o l’apparenza fisica agli occhi del lettore, tant’è vero che descrive il fatto di avere i capelli radi o la corporatura mingherlina; aspetti che non penseremo di vedere in un poeta celebre e sommo, il quale è idealmente abbinato a qualcuno statuario, bello, glorioso. Foscolo, invece, quando parla dei suoi aspetti come “l’irsuto petto” dell’edizione 1821-1824 o il “crin fulvo” dà un’immagine battagliera, di qualcuno che è forte anche nei propri difetti. Appoggiandosi al modello alfieriano in modo assolutamente autonomo fino a superarlo, in Foscolo c’è la volontà di proiettarsi in una dimensione auto-eroizzante. Non a caso, mentre Foscolo dice “morte sol mi darà fama e riposo”, ovvero seguo il cuore perché ho un animo passionale, battagliero, quindi non per cedevolezza, ma per forza d’animo, Alfieri non scioglie il dubbio: se alla fine io sarò grande o vile lo saprò solo tramite la morte; in vita non posso che esprimere questo dilemma che mai si scioglierà; in sostanza, Foscolo è molto più netto e preciso nell’affermare il proprio egoismo. Un altro esempio: quando parla del proprio essere iracondo, non lo mette come un difetto, ma fa un riferimento abbastanza esplicito, accorpandolo ad altri aspetti come la facilità di azione, al “crin fulvo”, quasi come se lui fosse la versione presente dell’eroe omerico per eccellenza, ossia quell’Achille che oscilla tra il valore battagliero e l’ira funesta. Con questo, Foscolo fa un’operazione abbastanza inusuale a livello letterario, cioè non si rifà a un modello, ma lo prende per agire in completa autonomia e piegarlo alle proprie esigenze. Su questo ci possiamo salutare e ci vediamo nelle prossime lezioni. Arrivederci.