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La politica economica del Fascismo: il corporativismo, la battaglia del grano, la "quota 90"

Fin dai primi tempi del Partito Nazionale Fascista, il suo leader Benito Mussolini ha sempre sostenuto il principio del corporativismo come pietra fondamentale per l’organizzazione del lavoro. Ben radicata all’interno della tradizione nazionalista, l’idea corporativa si fonde però con il passato socialista del “duce”, riconoscendo la realtà (e il ruolo) delle classi sociali, subordinandole tuttavia al bene superiore dello Stato nazionale, che ha il compito di regolare e superare il conflitto sociale.
 
Lo Stato “sindacal-corporativo” si traduce, nel disegno politico-dittatoriale mussoliniano, nell’asservimento dei sindacati al regime: a partire dal 1925, nel momento di affermazione del Fascismo quale dittatura in senso pieno e compiuto, assistiamo alle ultime grandi manifestazioni operaie (tra cui ricordiamo il grande sciopero dei metallurgici lombardi tra febbraio e marzo di quell’anno), fino allo scontro tra la FIOM socialista e le corporazioni del Fascio. Il Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) e la Legge Rocco (3 aprile 1926) attuano la fascistizzazione anche in campo sindacale, provvedendo alla soppressione di sindacati e associazioni di categoria antifasciste, oltre all’abolizione del diritto di sciopero. In tal modo, le principali attività economiche dello Stato italiano sono sotto il controllo diretto del Partito Nazionale Fascista, tanto che di li a poco sarà necessario essere iscritti al partito per poter aver diritto ad un lavoro.
 
Per reagire alla difficile situazione economica (a causa della debolezza della lira, all’inflazione crescente e al conseguente aumento del costo della vita), il regime, per favorire l’aumento della produzione e dei consumi interni, attua alcuni provvedimenti, tra cui la cosiddetta “battaglia del grano” e la difesa della moneta nazionale (la "quota 90", come nel discorso propagandistico di Mussolini a Pesaro nel 1926). Nel 1927, approvata la Carta del Lavoro - un manifesto dell’organizzazione lavorativa del nuovo Stato corporativo - vengono poi approvate misure deflattive e una generale riduzione dei salari: una serie di misure che, nonostante la repressione fascista, portano a nuovi scioperi, spesso sollevati della forze comuniste clandestine.
 
La lezione è a cura del Laboratorio LAPSUS (Università degli Studi di Milano)
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I principi del corporativismo: pace sociale e armonia tra le classi


Fin dalla fondazione del Partito Nazionale Fascista, Mussolini aveva sostenuto il corporativismo come principio fondante dell’organizzazione lavorativa e produttiva. Il corporativismo rientra pienamente nella tradizione nazionalista, con un'eccezione (dovuta probabilmente al passato socialista di Mussolini e alle influenze anarco-sindacaliste presenti nel fascismo delle origini): il fascismo, infatti, riconosce l’esistenza delle classi sociali e del loro contrasto, mentre il nazionalismo parla di un unico “popolo” fondante la nazione. L’ottica mussoliniana prevede che, per il superiore bene dello Stato, il conflitto sociale venga superato e regolato attraverso un organismo superiore. Perciò le associazioni degli imprenditori e dei lavoratori devono rientrare all’interno di una comune organizzazione del lavoro, la Corporazione, che sia unitaria, armonizzata al suo interno e posta sotto il diretto controllo dello Stato. Il progetto teorico di Mussolini è lo Stato “sindacal-corporativo”, ovvero la sindacalizzazione dello Stato e l’ingresso completo delle associazioni di categoria dentro di esso. Questo progetto in realtà si tradurrà in realtà nell’asservimento dei sindacati al regime.


Dalle ultime mobilitazioni della Fiom al sindacalismo fascista integrale (1925 – 1927)

 

I primi governi Mussolini avevano applicato provvedimenti volti al riconoscimento dei soli sindacati fascisti all’interno delle contrattazioni con gli imprenditori. Nel corso del 1925 una serie di agitazioni sociali (le ultime di grande portata) determina lo scontro tra la Federazione degli operai metallurgici (FIOM, il principale sindacato operaio in Italia), di ispirazione socialista, e le corporazioni fasciste. Infatti, nelle elezioni delle commissioni interne Fiat del settembre 1924 i lavoratori votano massicciamente per la FIOM e, in occasione di scioperi avviati dai fascisti, decidono di seguire le iniziative della FIOM (come avviene per il grande sciopero dei metallurgici lombardi del febbraio-marzo 1925). Col Patto di Palazzo Vidoni, del 2 ottobre 1925, e con la Legge Rocco sulle corporazioni, del 3 aprile 1926 il regime attua la fascistizzazione in campo sindacale e procede alla soppressione dei sindacati e delle associazioni di categoria antifasciste. Con l’assenso degli imprenditori, questi e i lavoratori vennero riuniti “mediante organi centrali di collegamento con una superiore gerarchia comune”, le corporazioni, che diventano organi dello Stato controllati dal Gran Consiglio del Fascismo. Sciolti i sindacati e abolito il diritto di sciopero, le attività economiche di primaria importanza per lo Stato vennero poste sotto il controllo del Pnf. Successivamente, viene resa obbligatoria l’iscrizione al partito fascista e alle associazioni di regime per poter ottenere un lavoro. Il sindacalismo fascista è a questo punto integrale e pienamente parte dello Stato fascista.

 

I provvedimenti economici dal "discorso di Pesaro" alla deflazione del ’27-’28

 

Nonostante la congiuntura economica internazionale favorevole, la situazione italiana rimase difficile fino al 1926, a causa della debolezza della lira, all’inflazione crescente e al conseguente aumento del costo della vita. Per bloccare un'ulteriore svalutazione, il regime fascista decide di puntare sull’aumento della produzione e dei consumi interni. Viene lanciata la “battaglia del grano” per intensificare la coltura di cereali; si impone l’impiego di minerali nazionali per la produzione siderurgica; è vietata la costruzione di edifici di lusso e di nuovi esercizi pubblici; si estende la giornata lavorativa a 9 ore e si diminuiscono i dipendenti statali. La battaglia in difesa della lira diventa un tema di propaganda durante un famoso discorso di Mussolini, tenuto a Pesaro nell’agosto 1926, in cui questi ribadisce la volontà del regime di difendere a oltranza la moneta nazionale.

 

Tra il 7 gennaio e il 22 aprile 1927 il Gran Consiglio discute e approva la Carta del lavoro: un manifesto dell’organizzazione lavorativa del nuovo Stato corporativo, contenente i principi guida della disciplina produttiva. Nel corso del 1927 vengono messe in atto anche alcune politiche deflattive, che però causano solo la riduzione dei salari. Tutte le corporazioni e le associazioni di categoria, d’accordo con gli industriali, decidono un abbassamento generale del 10% dei salari dal 24 maggio. Si decide inoltre la riduzione dell’indennità caroviveri agli impiegati statali.

 

Di fronte a queste decisioni i lavoratori, ancora fortemente sindacalizzati, in più occasioni decidono di ignorare il divieto di sciopero e incrociano le braccia. Secondo fonti non ufficiali, in questo periodo si emettono oltre 8000 condanne per reati sindacali. A dirigere le vertenze ritroviamo spesso i comunisti, che hanno già avviato la propria azione clandestina approfittando del malcontento dei lavoratori.