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I moti del 1820-21 in Europa e in Italia

Gli anni che seguirono il 1820 furono contraddistinti in Europa da un lungo e travagliato periodo  di instabilità sociale. Ciò fu in gran parte il risultato del "nuovo ordine" deciso dal Congresso di Vienna. I capi delle grandi Potenze che si erano riuniti nella capitale  austriaca  avevano infatti ricercato a tutti i costi un equilibrio tra le Potenze, anche se a scapito delle legittime pretese nazionali dei popoli. Un grosso ruolo giocò tuttavia la grave crisi economica che già si trascinava dagli anni 1817-18, e che dappertutto fu causa di carestia alimentare e disoccupazione. In tale contesto di crisi si inserì la febbrile attività delle società segrete, ed in particolare della Carboneria. Scopo di queste associazioni era la trasformazione dei regimi assolutistici in regimi costituzionali.

 

Le differenze di tipo politico tra le varie società non mettevano in discussione il raggiungimento di questo obbiettivo: ragion per cui l’azione dei cospiratori potè svolgersi all’insegna di una sostanziale unità. La pressione rivoluzionaria, come su accennato, riguardò tutto il vecchio continente, ma ebbe successo soprattutto nei paesi mediterranei. In Germania, il movimento nazionalista del Burchenshaft fu duramente represso dalla severa azione del cancelliere austriaco Metternich, il quale, d’intesa con i sovrani di Prussia e Russia, assunse il ruolo di principale gendarme dell’ordine stabilito dal Congresso di Vienna. Varie agitazioni e tentativi insurrezionali si ebbero in Francia, dove l’offensiva reazionaria (a capeggiarla erano gli Ultras, ossia gli ultrarealisti) cercava di annullare completamente l’opera della grande rivoluzione del 1789. Analoghi conati rivoluzionari si ebbero in Inghilterra, paese in cui urgeva una riforma elettorale e vi erano soventi tumulti sociali dovuti alle resistenze che artigiani e operai opponevano al fenomeno della industrializzazione. In Spagna, la rivoluzione riuscì grazie al pronunciamento di alcuni ufficiali dell’esercito e alle forze liberali, che costrinsero il re a ripristinare la costituzione promulgata nel 1812 e a convocare il parlamento (le Cortes). Il successo dei liberali spagnoli incoraggiò il mondo della cospirazione europea. L’onda della rivoluzione approdò in Italia meridionale, dove la notte tra il 1 e 2 luglio 1820 un gruppo di carbonari campani decise di muovere in armi contro il reazionario governo di Ferdinando I. A capeggiare la rivolta nel regno di Napoli fu il prete Luigi Menichini, il quale con un gruppuscolo di carbonari di Nola si unì ad un centinaio di militari al comando del tenente Michele Morelli. L’iniziativa ebbe l’adesione inoltre di diversi alti ufficiali, che in passato avevano militato sotto il re Gioacchino Murat, tra cui il generale Guglielmo Pepe. Quest’ultimo assunse subito il comando delle operazioni, mentre passarono all’azione le diverse “vendite” carbonare delle province (cioè gli agglomerati di nuclei sovversivi locali). La rivoluzione napoletana ebbe un esito rapido: e non poteva essere altrimenti data la sostanziale identità di vedute tra il ceto piccolo e medio borghese, tra artigiani e basso clero, e soprattutto tra i quadri intermedi dell’esercito. Messo alle strette dalla forte pressione popolare, il sovrano si vide costretto ad emanare un editto in cui si prometteva la promulgazione della costituzione. Con tale formale premessa le forze liberali potevano ritenersi soddisfatte: il loro obbiettivo di un regime temperato da alcune garanzie poteva dirsi raggiunto.

 

Tuttavia, le aspettative dei napoletani furono oltremodo rese complicate dalla contemporanea insurrezione siciliana. Nella rivolta che scoppiò nell’isola a metà luglio prevaleva infatti la tradizionale tendenza separatistica della Sicilia. L’odio verso il governo dei Borboni  aveva cementato un’alleanza tra le corporazioni degli artigiani e alcune frange della nobiltà. Ma, quasi subito, scaturirono  delle diverse interpretazioni riguardo il regime da adottare. La fazione popolare propendeva per la costituzione spagnola del 1812 (anche se si conoscevano in modo vago i contenuti), mentre la fazione nobiliare  preferiva adottare la costituzione, sempre del 1812, che era stata adottata nell’isola per iniziativa del diplomatico inglese Bentick. Oltre a queste differenti istanze dell’indipendentismo siciliano, bisognava tenere conto delle posizioni assunte dai rappresentanti delle altre città, che rifiutavano l’impronta separatista data alla rivoluzione dalle forze insurrezionali di Palermo. Il governo napoletano, dal canto suo, non intendeva in alcun modo considerare l’ipotesi di un distacco della Sicilia dallo Stato, né tantomeno contemplava la concessione di una particolare autonomia. L’unica risposta che venne da Napoli fu l’invio dell’esercito, il cui comando fu affidato a Pietro Colletta (che diventerà, fra l’altro, famoso come autore di una importante opera storiografica sul regno di Napoli).


La rivolta dei ribelli siciliani era destinata a subire una durissima repressione. Tuttavia, le sollevazioni delle terre napoletane funsero da potente stimolo per i patrioti della parte settentrionale della penisola. Ad esacerbare ancora di più gli animi alla lotta, pensava l’Austria con la continua minaccia di intervento a difesa delle istituzioni insidiate dalla Rivoluzione. Ancora una volta fu l’attivismo delle "vendite" carbonare a provocare tumulti, questa volta in Piemonte e Lombardia. In quest’ultima regione la scarsa coordinazione dei carbonari, aggiunta all’opera di delatori, portarono all’arresto di alcuni cospiratori milanesi, tra cui Piero Maroncelli e Silvio Pellico, autore quest’ultimo de Le mie prigioni, libro mediante il quale l’autore narrò le sue esperienze in carcere, e che avrebbe contribuito notevolmente a fomentare il sentimento antiaustriaco in Italia.