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Sofocle, “Edipo re”: riassunto e commento

La tragedia di Sofocle (496 a.C. - 406 a.C.) Edipo re viene messa in scena per la prima volta tra il 430 e il 420 a.C. ad Atene e fa parte con altre due tragedie, l’Edipo a Colono e l’Antigone, del ciclo tebano. Queste opere seguono infatti le drammatiche vicende dei discendenti di Cadmo, sposo di Armonia e fondatore di Tebe, e si inseriscono all’interno di un più vasto corpus mitico che il pubblico ateniese conosce e in cui può facilmente immedesimarsi. Per quanto riguarda l’Edipo re, la tragedia prende le mosse dalla grave pestilenza che falcidia la popolazione di Tebe durante la reggenza di Edipo; per capire l’opera sarà allora necessario conoscerne l’antefatto.
Edipo è il figlio del re di Tebe, Laio e di sua moglie Giocasta. Dopo il suo concepimento un oracolo rivela al sovrano che il nascituro è destinato a uccidere suo padre e giacere con sua madre. Laio ordina quindi a un servo di uccidere il neonato, ma, impietosito, il servo decide di affidare il bambino a un pastore che a sua volta lo cede al re di Corinto, Polibo, e a sua moglie Peribea, che non potevano avere figli. Edipo cresce quindi nella convinzione che i sovrani di Corinto siano i suoi veri genitori e quando un oracolo gli ripete la predizione fatta in precedenza a Laio, Edipo, convinto di rappresentare un pericolo per Polibo e Peribea, parte da Corinto e si dirige a Tebe. Sulla strada incontra un carro, si tratta di Laio, che si sta dirigendo a Delfi per consultare l’oracolo. Nessuno dei due uomini vuole lasciare il passo all’altro così ne nasce una disputa che si trasforma in lite e Laio rimane ucciso. La prima parte della profezia si è avverata. Edipo giunge quindi a Tebe, dove la popolazione è tormentata da una Sfinge, un mostro con la testa di donna e il corpo di leone che ogni anno esige in tributo giovani vite. La Sfinge infatti propone ai giovani tebani degli indovinelli a cui è impossibile rispondere e i malcapitati pagano la loro ignoranza con la vita.
Edipo si offre quindi volontario per sfidare il mostro. La sfinge chiede a Edipo chi sia quell’essere che cammina prima con quattro gambe, poi con due gambe e infine con tre. Edipo risponde correttamente: si tratta dell’uomo. Così la Sfinge, sconfitta, si getta dalla rupe da cui dominava la città e Edipo viene nominato re di Tebe (infatti era già giunta notizia della morte di Laio) e sposa la regina, Giocasta. Anche la seconda parte della profezia si è avverata.
Da questa situazione muove l’Edipo re di Sofocle. 


Riassunto

A Tebe infuria la peste e Edipo ha inviato Creonte, fratello di Giocasta, a Delfi per interrogare l’oracolo. Creonte torna quindi a Tebe recando con sé notizie funeste: l’assassinio di Laio vive ancora tra le mura della città. Edipo, che non è a conoscenza delle circostanze della morte di Laio, chiede delucidazioni a Creonte che racconta di come il precedente sovrano fosse stato attaccato da un gruppo di briganti sulla strada per Tebe.
Edipo ordina che il responsabile venga trovato e bandito da Tebe e chiede a Tiresia, vecchio indovino cieco, di svelare l’identità del colpevole. Tiresia, tuttavia, si rifiuta, sostenendo che il suo vaticino potrebbe portare conseguenze ancora più funeste. Edipo e Tiresia si scontrano verbalmente con toni molto accesi finché l’indovino non riferisce che proprio Edipo è l’assassino che si sta cercando.
Edipo non crede a una parola di quanto detto da Tiresia e comincia a sospettare che Creonte voglia prendere il suo posto sul trono e abbia preso accordi con l’indovino per scacciarlo da Tebe. Edipo si confronta allora con Creonte, il quale sostiene si difende rivendicando di non avere nessun interesse a tradire il re. I due uomini vengono quindi raggiunti da Giocasta che, per placare Edipo, gli assicura che spesso gli indovini danno responsi sbagliati. A testimonianza di ciò riferisce che a Laio era stato predetto di morire per mano di suo figlio, mentre, come gli ha già spiegato Creonte, erano stati dei furfanti. Giocasta aggiunge però dei particolari sulla strada in cui si trovava Laio e Edipo, che riconosce quel punto come il luogo dove ha ucciso un uomo e ritrova nella profezia raccontata da Giocasta echi di quella che gli era stata fatta a Corinto, decide di approfondire le indagini.
Edipo racconta così a Giocasta del pronostico ricevuto in gioventù e delle circostanze in cui ha ucciso un uomo mentre si recava a Tebe. Nel frattempo arriva un ambasciatore di Corinto che informa Edipo della morte di Polibio e di essere quindi, per eredità, il nuovo re di Corinto. Edipo però ricorda bene che la profozia non riguardava solo l’uccisione del padre ma anche l’incesto con la madre, chiede così all’ambasciatore cosa ne sia stato di lei.
L’ambasciatore però non è uomo qualsiasi, ma proprio quel pastore che tanti anni prima aveva affidato il figlio di Laio a Polibio: assicura così a Edipo che Peribea non è la sua madre naturale. Quando l’ambasciatore riferisce che il neonato gli è stato affidato dal servo di Laio, Edipo fa chiamare il vecchio servitore che ancora vive a Tebe. Giocasta, che ha compreso l’inganno del destino che beffardo si è preso gioco di loro, cerca di convincere Edipo ad abbandonare l’esigenza di colmare lacune del passato. Ma le sue suppliche restano inascoltate, allora Giocasta si allontana e, sconvolta dalla scoperta, decide di porre fine alla sua vita.
Il servo di Laio, a colloquio con Edipo, riconosce l’ambasciatore come il pastore a cui ha affidato il neonato ma si mostra reticente a voler proseguire il racconto. Incalzato da Edipo rivela infine che Laio gli aveva affidato il neonato acciocché lo uccidesse, ma mosso da pietà il servo aveva affidato il bambino al pastore.
Edipo si rende così conto di essere lui il figlio di entrambe le profezie, di aver ucciso sua padre e aver giaciuto con sua madre così come il destino aveva decretato dovesse compiersi. Esce quindi di scena disperato.
Scopriamo quindi che Edipo, dopo aver trovato la madre, Giocasta, morta impiccata, ha usato le fibbie del vestito di lei per accecarsi. Edipo supplica quindi Creonte, destinato a diventare il nuovo reggente, di esiliarlo da Tebe, in quanto per colpa sua l’ordine naturale è stato sovvertito e la peste ne è la conseguenza. Saluta quindi le figlie, Antigone e Ismene, destinate anch’esse alla sventura in quanto nate da un unione aborrita dagli dei e dagli uomini.


Commento

Due sono le principali tematiche sottese all’Edipo re di Sofocle, da un lato il pericolo che la conoscenza può comportare per l’individuo, e dall’altro l’intrinseca debolezza dell’uomo che, lungi dall’essere padrone delle proprie azioni è destinato a venir dominato dal destino e dal caso. L’opera evidenzia insomma una tragicità interna all’esistenza umana, per sua natura tesa all’azione logica, alla ricerca di nessi causali tra gli eventi, ma costretta in ultimo a soccombere a mero accidente. La convinzione di avere sotto controllo la propria vita e le conseguenze delle proprie azioni non è insomma altro che un’illusione.
La situazione in cui viene a trovarsi Edipo è quindi singolare: la sua intera vita ruota attorno al tentativo di evitare il destino atroce che gli è stato prognosticato. Edipo cerca l’esilio, si allontana da Corinto, dai suoi cari e dal suo ruolo di principe per evitare di macchiarsi di una colpa che non è altro che un vago miraggio. Mette la sua intelligenza a servizio della volontà, ma l’intelligenza non può nulla contro la sorte. La beffa dell’Edipo re è proprio questa: Edipo, credendo di allontanarsi da colpe che non ha ancora commesso, in realtà sta inconsapevolmente adoperandosi per mettere in atto i disegni del destino. Pagherà a caro prezzo colpe che credeva di aver evitato, colpe che ha commesso al di fuori di ogni consapevolezza.
Nella tragedia di Sofocle assistiamo quindi a un movimento dettato dalla logica che si rivelerà inutile e dannoso e a una curiosità, una ricerca di conoscenza, che ha le stesse deleterie caratteristiche del precedente movimento. Paradigmatica allora la punizione che Edipo si autoinfligge nella conclusione del dramma: non solo l’esilio, necessario a ripristinare l’ordine turbato, ma anche l’accecamento. Privarsi della vista significa allora privarsi della curiosità, della tensione alla conoscenza. Edipo voleva “vedere”, ma la visione, la scoperta, hanno portato alla luce la futilità della sua intera esistenza, che ha avuto modo di svilupparsi grazie a un inganno, quello del pastore che lo ha salvato, e di muovere verso il compimento dell’infausta predizione dell’oracolo grazie a un altro inganno, quello dei sovrani di Corinto che non gli hanno mai rivelato la sua vera provenienza. Malgrado sia dominata da un’inesauribile sete di conoscenza, la vita di Edipo è segnata dall’inganno, dall’errore e dal movimento vano: l’eroe è fondamentalmente ignorante. Proprio da questa ignoranza, allora, scaturisce la tragicità della vicenda di Edipo. Per lo spettatore moderno, infatti, ma anche per lo spettatore ateniese, Edipo non è responsabile delle proprie colpe. Oltre l’orrore Edipo è una vittima di quell’entità, il fato, a cui nella mitologia greca anche le divinità devono sottomettersi. Ma la società di cui fa parte il re di Tebe non è quella in cui Sofocle scrive le sue tragedie, è una società più antica, basata sui vincoli dell’onore e dell’ordine sociale e naturale più che sulla morale. Edipo allora è disonorato e, peggio, è la causa del sovvertimento della vita dei tebani. Uccidendo il padre e giacendo con la madre, è andato contro le regole di convivenza del nucleo familiare e di quelle della famiglia con la collettività, è diventato un pericolo per l’intera comunità di appartenenza e se ne deve allontare. Una prima manifestazione arcaica di ordine sociale quindi, che Edipo assume di sé così come fanno tutti coloro che lo circondano. Nessuno dei personaggi di Sofocle si fa avanti per contestare il destino che attende Edipo, nemmeno Edipo stesso: non sarebbe possibile, non sarebbe nemmeno immaginabile in un mondo pre-morale. L’unica possibilità allora è l’esilio e Sofocle, così come i suoi spettatori, riconoscono l’ingiustizia e l’inevitabilità di questa conclusione ed è in questo riconoscimento che, in ultima analisi, risiede la tragedia.