La prospettiva giansenista con cui Manzoni guarda alla Storia ed alla posizione dell’uomo di fronte ad essa, emerge con particolare evidenza nell’Adelchi, dove l’autore compie una lucida analisi delle modalità e delle ragioni attraverso le quali i personaggi compiono le proprie scelte davanti alle opzioni che la Storia presenta loro. Manzoni, a questo proposito, opera una ricognizione approfondita nelle coscienze dei personaggi, proprio là cioè dove si individuano le fonti dell’accadere a seguito delle scelte dei singoli, dove si confrontano le opzioni intime poste davanti agli eventi, i quali risultano sempre come l’occasione che gli individui hanno di definirsi e di dare, attraverso le proprie scelte, responsabilmente senso alle proprie azioni, secondo una dinamica che potrebbe definirsi come quella del “darsi un nome”, secondo un’espressione che non a caso, e in modo molto significativo, si ritrova in termini analoghi sia nel monologo del traditore Svarto nell’atto I scena VII, vv. 355-360, sia a proposito di Napoleone ne Il cinque Maggio, v. 49.
Alcuni monologhi della tragedia si rivelano particolarmente interessanti per illuminare quanto sopra e verificare la qualità dell’indagine nella coscienza umana messa in campo dall’Adelchi, nonché alcune posizioni ideologiche di Manzoni rilevanti per una migliore comprensione della produzione manzoniana nel suo insieme. Il monologo di Svarto presente nell’ atto I scena VII espone, in modo assai intenso, le ragioni del tradimento del soldato rendendolo un paradigma di quella “feroce forza” che si fa chiamare diritto, di cui parla Adelchi morente nell’atto V, scena VIII, ai vv. 354-359. Il dramma di Svarto nasce proprio dall’ingiustizia che domina la Storia, in seguito alla quale il dominio, la potenza, il mito della superiorità, l’emergere del proprio nome su quello altrui, il compiacersi di far parte dei grandi e dei conosciuti rispetto alla massa anonima, si qualificano, nell’ottica comunemente condivisa, come valori su cui impostare la propria realizzazione di vita. L’oscuro soldato soffre perché egli, secondo la logica della società che lo circonda, è nulla, non è nessuno; il suo nome giace nel fondo dell’”urna” della sorte senza poter emergere dalla massa, nell’ esistenza oscura della quale si sente confuso, mentre egli brama di essere un giorno pari ai “grandi” che frequentano la sua casa senza timore proprio per il malcelato disprezzo con cui guardano ad un oscuro soldato dal quale sanno di non aver nulla da temere proprio per la legge del più forte che domina la società umana, segnata dall’ingiustizia.
Eppure Svarto presenta, a suo modo, anche qualche tratto di nobiltà: il suo desiderio infatti non nasce da un meschino desiderio di ricchezza. Se mai è espressione di un sentimento “epico”dell’esistenza, poiché constata con risentita ed acuta amarezza che le distinzioni sociali ed il potere non si basano sull’ “ardire” guerriero, sul valore in battaglia, ma solo sulla “sorte”, cioè su di un assetto sociale rigido e predeterminato che ostenta la superbia di casta e celebra l’orgoglio conservando però rigidamente i propri privilegi. Svarto rappresenta così il desiderio di “darsi un nome”, cioè di affermare il proprio “io” al di sopra degli altri, secondo il sistema valoriale della Storia, il massimo esponente del quale risulta, nei testi manzoniani, proprio quel Napoleone che, ne Il cinque Maggio, dall’oscurità arriva alla suprema altezza umana, al cui nome dunque “due secoli, | l’un contro l’altro armato, | sommessi a lui si volsero, | come aspettando il fato”. Un orizzonte dunque da cui è assente qualsiasi apertura alla rivelazione divina ed alla luce della Grazia.