Suddivisa in dieci libri e probabilmente composta nel periodo della maturità del filosofo di Stagira, l’Etica Nicomachea è un trattato che riassume complessivamente la teoria aristotelica in fatto di etica e di ricerca della felicità. Probabilmente dedicata al figlio Nicomaco, l’opera si apre con una minuziosa analisi (come sempre in Aristotele) dei concetti di “bene” e di “sommo bene”, sulla scia di un netto distanziamento dalle riflessioni della linea socratica e platonica. Se obiettivo della vita umana è l’eudaimonìa (la “felicità”, appunto), occorre chiarire meglio cosa in realtà sia questo “bene”:
Ma senza dubbio dire che la felicità è il bene supremo risulta sì una cosa sulla quale si è tutti d’accordo, ma si desidera che sia esposto più chiaramente che cos’è. Forse questo potrebbe avvenire se si comprendesse l’opera propria dell’uomo. Infatti come per un suonatore di flauto e per uno scultore e per ogni artigiano e, in generale, per cose di cui vi è un’opera ed un’azione è nell’opera che , ad avviso unanime, risiedono il bene e la perfezione, così tutti ammetteranno che è anche per l’uomo, se è vero che vi è un’opera propria di lui. [...] Pertanto quale mai potrebbe essere quest’opera? Infatti il vivere è in tutta evidenza una cosa comune anche alle piante, mentre si cerca ciò che gli è proprio.
La ricerca di questo qualcosa “che gli è proprio” approda, di qui a poche righe, ad un definizione assai puntuale e suggestiva: “il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta”. Il metodo aristotelico e l’indagine di questa virtù implicano che il campo di ricerca sia suddiviso in due sottoinsiemi, quello delle virtù etiche (proprie del "carattere", e che fanno riferimento alla facoltà desiderativa insita in ciascuno di noi) e quello delle virtù dianoetiche, che invece dipendono dalla facoltà razionale:
Infatti diciamo che delle virtù alcune sono dianoetiche, altre etiche. La sapienza, l’intelligenza e la saggezza sono virtù dianoetiche; la liberalità e la moderazione, invece, sono virtù etiche. Parlando infatti del carattere non diciamo che un uomo è sapiente o intelligente, ma che è mite o moderato. Ma lodiamo anche il sapiente secondo la sua disposizione. E quelle disposizioni che sono degne di lode, noi le chiamiamo virtù.
E la phrònesis (la “saggezza”) sarà la virtù più importante tra le facoltà dell’anima razionale; essa infatti ha il duplice compito di stabilire il “giusto mezzo” tra estremi opposti “per eccesso o per difetto” e di saper sempre prendere la miglior decisione per raggiungere un fine buono, in accordo con la teoria della felicità. Ecco allora chi è davvero saggio per Aristotele:
Un modo per comprendere che cos’è la saggezza è considerare quali uomini noi indichiamo dicendo “i saggi”. È opinione comune che proprio del saggio è l’esser capace di deliberare sulle cose che sono buone e vantaggiose per lui: non da un punto di vista particolare, come ad esempio quali giovano alla salute o alla forza fisica, ma quali conducono a vivere bene, in senso totale. Ne è prova il fatto che noi chiamiamo saggi anche quelli che lo sono in un determinato settore, quando calcolano bene in vista di un fine virtuoso particolare, fra quelli che non sono oggetto di arte. Di conseguenza, anche in senso generale sarà saggio chi sa deliberare.
La concezione aristotelica della eudaimonìa e l’ideale del “giusto mezzo” si estende anche alla sua concezione politica, laddove Aristotele identifica nella aristé politeia (e nella polis greca) l’organizzazione socio-politica migliore per integrare la ricerca della felicità del singolo con il bene collettivo:
Lo stato vuole essere costituito, per quanto è possibile, di elementi uguali e simili, il che succede soprattutto con le persone del ceto medio, Di conseguenza ha necessariamente l’ordinamento migliore lo stato che risulti di quegli elementi dei quali diciamo che è formata per natura la compagine dello stato. E son questi cittadini che nello stato hanno l’esistenza garantita più di tutti: infatti essi non bramano le altrui cose, come i poveri, né gli altri le loro, come fanno appunto i poveri dei beni dei ricchi, e quindi per non essere essi stessi presi di mira e per non prendere di mira gli altri, vivono al di fuori di ogni pericolo. Perciò fu saggio il voto di Focilide: “Spesso il meglio è nel mezzo, e io lì nello stato voglio essere”.