“Auto alimentata ad alcol.”
No, non avete bevuto troppo, avete letto bene. L’alcol può essere infatti utilizzato come carburante, in quanto contenente, in maniera simile alla benzina, l’energia necessaria a permettere ad automobili e altri mezzi di trasporto di funzionare. In particolare, l’alcol più utilizzato è il bioetanolo (C2H6O), che deriva dalla fermentazione di zuccheri da parte di microrganismi, come il lievito. Questo processo è normalmente utilizzato per fermentazioni comuni, es. la produzione della birra e del vino, (il cui contenuto in etanolo è ciò che rende tali bevande alcoliche).
Il bioetanolo è un biocarburante derivante dalla trasformazione di biomassa vegetale ad opera di lieviti come S. cerevisiae. Questo viene utilizzato e modificato mediante tecniche di biotecnologia. Per definizione, il biocarburante è in grado di intraprendere un “ciclo vitale” nel quale l’anidride carbonica emessa dalla sua produzione e combustione viene riassorbita dalle piante per produrre nuovamente biomassa.
Il bioetanolo presenta, tuttavia, caratteristiche (principalmente chimiche) che ne rallentano lo sviluppo come valida alternativa ai carburanti fossili attualmente in uso: per esempio il suo contenuto energetico è inferiore a quello della benzina e di conseguenza ne sarà necessaria una maggiore quantità per liberare la stessa energia. L’etanolo, inoltre, tende a diluirsi, assorbendo acqua dall’ambiente (igroscopicità), e ha un’elevata corrosività. Quest'ultima caratteristica lo porta a essere un "ospite sgradito" nelle strutture più utilizzate per la conservazione, il trasporto e l'utilizzo del petrolio, come gli oleodotti o i motori delle automobili. I motori che possono utilizzare come combustibile il bioetanolo prendono il nome di flexifuel.
Ad oggi esistono molte vetture equipaggiate in questo modo, poichè nelle case automobilistiche, specialmente le più grandi, è cresciuto l'interesse verso il mercato dei biocarburanti. Economie emergenti come quella del Brasile ha infatti attuato una conversione quasi totale al bioetanolo. Esso viene venduto in miscele come E10, E30 e E85, dove il numero indica la percentuale di bioetanolo presente nel carburante: solo il primo può essere utilizzato da molte delle vetture alimentate a benzina attualmente in commercio, mentre le altre due miscele sono specifiche per veicoli dotati di motori flexifuel.
Stazione di rifornimento negli Stati Uniti. Al fianco delle normali benzine (a sinistra) i biocarburanti E15 (15% bioetanolo, 85% benzina), E30 (30% bioetanolo, 70% benzina) e E85 (85% bioetanolo, 15% benzina) a disposizione del cliente. Come è possibile notare, il prezzo del carburante (sul display) in questo caso diminuisce con l’aumentare del contenuto in etanolo. Bisogna tuttavia considerare il minor contenuto energetico dell’etanolo rispetto alla benzina, che lo porterà ad essere usato in quantità maggiori.
Nonostante le problematiche legate all’utilizzo del bioetanolo, esso è il più diffuso fra tutti i biocarburanti, soprattutto grazie alla relativa semplicità con la quale è possibile produrlo, utilizzando il lievito come microrganismo fermentante.
Il processo di fermentazione utilizza il glucosio come substrato. Due fonti di glucosio molto sfruttate per produrre il biocarburante sono il mais (Zea mais) e la canna da zucchero (Saccharum officinarum): il primo contiene amido, lungo polimero di glucosio, il secondo saccarosio, disaccaride costituito da glucosio e fruttosio. Il biofuel così ottenuto prende il nome di bioetanolo di prima generazione, che attualmente viene prodotto e utilizzato in particolare negli Stati Uniti (dal mais) e in Brasile (della canna da zucchero). La materia prima, tuttavia, è comune al settore alimentare, e per questo motivo si instaura una competizione con il settore energetico, con conseguente aumento del prezzo del mais o della canna da zucchero. Ciò si riflette ovviamente sul costo del bioetanolo di prima generazione, il quale non risulta competitivo nei confronti della benzina.
A questo si aggiunge anche un problema di tipo etico: l’uso di queste riserve per produrre biocarburanti andrebbe a sottrarre cibo alla popolazione, fatto che risulta ancor più importante nel caso di Paesi poveri (come ancora in gran parte lo è il Brasile stesso).
Per questi motivi si è pensato di utilizzare un'altra fonte di glucosio molto diffusa sul nostro pianeta e poco sfruttata dal punto di vista della produzione dei biocarburanti: la cellulosa (anch’esso polimero di glucosio). Il vantaggio di sfruttare la cellulosa sta nel poter sfruttare piante che non abbiano alcun valore commerciale e/o alimentare e che sono in grado di crescere in terre periferiche o per lo meno non arabili. Infatti se per coltivare queste piante, come il panico verga (Panicum virgatum) e la canna comune (Arundo donax), sottraessimo terreni a coltivazioni alimentari, i problemi non verrebbero risolti. Il biofuel ottenuto utilizzando questi substrati viene chiamato bioetanolo di seconda generazione.
Il bioetanolo di seconda generazione deriva quindi dalla fermentazione da parte del lievito del glucosio presente all’interno della cellulosa, la quale però nella maggior parte dei casi non si trova in natura in forma pura, in quanto sarebbe facilmente esposta agli agenti microbici presenti nell’ambiente, che la degraderebbero.
Nelle piante la cellulosa fa parte di una struttura più complessa chiamata lignocellulosa, la quale compone le parti più rigide di una pianta, come i fusti, ed è costituita, oltre che dalla cellulosa, da emicellulosa, polimero che contiene molti zuccheri pentosi fra cui lo xilosio e l’arabinosio, e lignina. La materia prima di conseguenza necessita passaggi di preparazione che permettano di liberare prima la cellulosa dalla struttura lignocellulosica (pre-trattamento) e poi i monomeri di glucosio dalla cellulosa (saccarificazione), in modo da renderli disponibili alla fermentazione: per quest’ultimo step si utilizzano enzimi in grado di idrolizzare il polimero, come le β-glucosidasi. Per aumentare la resa, la produzione e la produttività di bioetanolo di seconda generazione il lievito dovrebbe riuscire a fermentare anche gli zuccheri liberatisi dall’emicellulosa, che altrimenti andrebbero perduti. Il lievito S. cerevisiae, tuttavia, non è in grado di assorbire zuccheri come lo xilosio, e a questo scopo è stato modificato geneticamente in modo da esprimere gli enzimi della via metabolica di assimilazione di questo monosaccaride e i trasportatori di membrana in grado di velocizzare questo processo, derivanti entrambi da organismi che non sono in grado di produrre etanolo con le tempistiche e le quantità richieste.Utilizzando al meglio il substrato lignocellulosico il costo di produzione, e quindi di vendita, del bioetanolo di seconda generazione scenderebbe, facilitando investimenti in un suo sviluppo e la sua diffusione nella società moderna.