“Non ci sono più i sacchetti di una volta”: potremmo aggiungere questo detto ai già tanti presenti, poichè infatti anche i sacchetti della spesa che ci vengono dati alle casse dei supermercati non sono più gli stessi. Dal 2011, infatti, in Italia la busta di plastica è stata “mandata in pensione” per lasciare spazio ai sacchetti di bioplastica, un materiale di origine naturale in grado di simulare la plastica artificiale. Le bioplastiche sono meno inquinanti in quanto non derivanti dalla raffinazione del petrolio, ma da fonti di energia rinnovabili, come le biomasse. Sono inoltre in grado di essere fisicamente eliminate dopo l’uso poichè biodegradabili, se in grado di degradarsi autonomamente nell’ambiente ad opera di organismi naturali, o biocompostabili, se necessitano di un incentivo per la degradazione mediante l’aggiunta di microorganismi (consorzio microbico), per poi usarle come fertilizzanti.
Le bioplastiche sono polimeri di sintesi, generalmente lunghi, costituiti da tanti piccoli “mattoncini”, i cosiddetti monomeri. In particolare sono polimeri di condensazione in quanto derivanti dall’unione di due monomeri, come un acido carbossilico e un alcol (o un’ammina), con l’eliminazione di acqua. Proprio per questo motivo sono più facilmente idrolizzabili alle componenti originali da parte di agenti biologici come gli enzimi (e di conseguenza le cellule).
Perchè ciò sia possibile, tuttavia, i monomeri devono essere delle molecole metabolizzabili, o quantomeno assorbibili, dalle cellule: il PET (polietilene teraftalato), pur essendo un polimero di condensazione riciclabile al 100% non è biodegradabile, in quanto il monomero non può essere metabolizzato dalle cellule. Di conseguenza esso non potrà essere smaltito dall’ambiente se non riciclato per produrre nuova plastica.
Le biotecnologie si sono inserite in questo settore mediante lo sviluppo di piante e microorganismi in grado di produrre i monomeri o direttamente il polimero completo. Si può pensare anche di progettare un polimero “su carta” e poi ingegnerizzare un organismo in modo da produrre le componenti necessarie alla sua sintesi, mediante modificazione genetica
A seconda della composizione chimica possiamo identificare diversi tipi di bioplastiche le cui caratteristiche differenti li portano ad essere usati in diverso modo.
Il MaterBi ® è una bioplastica brevettata dall’azienda italiana Novamont, derivante dall’amido di mais. Ad oggi questo materiale detiene la maggior parte del mercato del settore, in quanto viene usato per la produzione dei sacchetti biodegradabili da cui siamo partiti. Nel caso in cui si utilizzino questi sacchetti per contenere i rifiuti organici, essi verrebbero smaltiti contemporaneamente, senza dovere in qualche modo recuperare la plastica comune. Viene usato per produrre anche stoviglie (piatti, bicchieri, posate) e vari tipi di imballaggi.
L’acido polilattico (PLA) deriva dalla polimerizzazione dell’acido lattico (C3H6O3), il quale può essere facilmente ottenuto da organismi come i lattobacilli mediante la fermentazione lattica. L’acido lattico si presta particolarmente bene alla sintesi di omopolimeri (ovvero costituiti da un solo tipo di monomero) in quanto possiede sia un gruppo carbossilico (-COOH) sia una gruppo alcolico (-OH), che possono fondersi per condensazione. Il procedimento prevede la formazione di un particolare dimero ciclico chiamato lattide, il quale viene spezzato da un enzima e dal calore per unirsi al polimero.
Il PLA viene utilizzato per produrre contenitori alimentari, come le bottiglie dell’acqua, in quanto dotato di trasparenza, scarsa infiammabilità e resistenza ai raggi UV.