Il dialogo è stato scritto da Leopardi nel 1824 ed è ispirato a una vicenda reale: uno
  	scienziato olandese, Federico Ruysch, era diventato famoso dopo aver inventato un
  	metodo per mummificare i cadaveri. Il poeta immagina che le mummie, presenti
  	nello studio dello scienziato, si risveglino e che intonino un canto sulla loro condizione
  	e sull'oblio della loro vita sulla terra. Con la comparsa di Federico Ruysch, vengono
  	interrogate da questo sulle sensazioni che si provano nel momento della morte e
  	sull'esistenza ultraterrena.
  	
  	Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
  	
  	Sola nel mondo eterna, a cui si volve
  	Ogni creata cosa,
  	In te, morte, si posa
  	Nostra ignuda natura;
  	Lieta no, ma sicura
  	Dall’antico dolor. Profonda notte
  	Nella confusa mente
  	Il pensier grave oscura;
  	Alla speme, al desio, l’arido spirto
  	Lena mancar si sente:
  	Così d’affanno e di temenza è sciolto,
  	E l’età vote e lente
  	Senza tedio consuma.
  	Vivemmo: e qual di paurosa larva,
  	E di sudato sogno,
  	A lattante fanciullo erra nell’alma
  	Confusa ricordanza:
  	Tal memoria n’avanza
  	Del viver nostro: ma da tema è lunge
  	Il rimembrar. Che fummo?
  	Che fu quel punto acerbo
  	Che di vita ebbe nome?
  	Cosa arcana e stupenda
  	Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
  	Qual de’ vivi al pensiero
  	L’ignota morte appar. Come da morte
  	Vivendo rifuggia, così rifugge
  	Dalla fiamma vitale
  	Nostra ignuda natura;
  	Lieta no ma sicura,
  	Però ch’esser beato
  	Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.
  	
  	…
  	
  	La conclusione del "Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie" è caratterizzata da
  	uno tono e uno stile comico, che risaltano maggiormente, dato l'argomento tragico
  	dell'operetta, la morte.
  	
  	Ruysch
  	Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra
  	questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano
  	la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella
  	dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o
  	pure immaginaste qualche altra cosa?
                                    
Morto
  	Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e
  	se non altro, fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse
  	di vita un’ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
  	Gli altri morti
  	A noi successe il medesimo.
Ruysch
  	Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere
  	almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo?
  	Dite: come conosceste d’essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m’intendete?
  	Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è
  	pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a letto.