I capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi descrivono la città di Milano afflitta dall'epidemia di peste:
Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
La peste inizia a mietere le prime vittime lungo il percorso compiuto dall’esercito dei lanzichenecchi, prima nel territorio di Chiuso, poi a Lecco e a Bellano. Il tribunale della salute manda quindi due commissari in quei luoghi per accertarsi di che male si tratti, ed essi "o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste". Finalmente, dopo aver ricevuto moltissime altre notizie di morti e aver spedito altri commissari, s’iniziano a prendere misure per arginare la pestilenza, ma invano. Il governatore di Milano, Ambrogio Spinola, si proclama però più interessato alla guerra che a queste dicerie e, non pago di ciò, indice una festa per la nascita del primogenito del re Filippo IV, aumentando così il rischio del contagio. Questo atteggiamento di ottusa cecità si rivela diffuso tra i cittadini e nel senato. Solo il cardinale Borromeo e il tribunale della sanità si prodigano per ottenere cooperazione e attenzione contro la minaccia incombente di un’epidemia.
Iniziano a circolare voci che individuano in un soldato entrato a Milano con un fagotto di vesti provenienti dall’esercito alemanno, che ha portato al peste in città. Piano piano questo terribile male comincia a dilagare, ma la il numero inizialmente basso di decessi fa sperare ancora che non si tratti di vera e propria peste. Le morti diventano però sempre più frequenti e non si possono più ignorare ma, avendole derise fino ad ora e non volendo ammettere lo sbaglio, i medici continuano a chiamarle con nomi affabulatori che confondono il popolo sulla natura del male, senza per giunta spiegare che la pestilenza si contrae per contatto. E così la situazione peggiora ogni giorno di più. Si chiede aiuto ai cappuccini che intervengono volonterosamente nel regolare e accudire la vita dei malati nel lazzaretto, ormai colmo di appestati, morendo anch’essi come mosche:
E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa.
Il popolo, e con esso anche i nobili, comincia finalmente a convincersi che sia scoppiata un’epidemia di peste ma, desiderando trovare per forza una ragione e un colpevole che scagionino la loro cecità e la loro colpa, inizia una psicosi collettiva che crea come capro espiatorio la figura dell’untore. Questa ossessione viene rinforzata da presunte visioni di untori nel Duomo e da altri eventi che fomentano l’immaginazione del volgo sulla gravità della situazione; la situazione degenera velocemente e vengono richiesti al governatore finanziamenti pubblici per un pronto intervento e al cardinale Borromeo d’indire una processione beneaugurante con le reliquie di San Carlo ("Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. [...] Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale”).
La convinzione che la tragica condizione in cui versa la città sia provocata da malefici untori dilaga sempre più, e chiunque cerca di scovarne l’operato. Così vengono linciati e torturati un anziano signore e tre giovani francesi. Il cardinal Borromeo acconsente alla processione, che nella speranza popolare avrebbe dovuto frenare la peste, ma in realtà peggiora la situazione e aumenta le vittime per contagio. Si giunge infatti nei mesi successivi a cinquecento morti al giorno. Il Manzoni descrive la disperazione e la desolazione della città e della popolazione, l’insufficienza di mezzi e di persone ancora disposte ad aiutare i bisognosi, e afferma che l‘unico appoggio che non cessa mai è quello degli ecclesiastici.In questa circostanza già così grave i malfattori e i briganti che sopravvivono alla peste approfittano della confusione generale per agire impuniti. Spesso, per penuria di monatti, si trovano addirittura a esercitare la funzione di polizia. La follia collettiva e la psicosi delle unzioni dilagano insieme alla peste in tutti gli strati sociali, e anche i pochi che riescono a mantenere la ragione devono tacere per pericolo di essere linciati. Dopo averci fornito questa esaustiva descrizione dei fatti relativi alla peste a Milano, il Manzoni conclude il capitolo con queste parole, che riprendono il filo della sua narrazione:
Serbando però a un altro scritto la storia e l’esame di quelli [...], torneremo finalmente a’ nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.