Nel primo capitolo de I Promessi Sposi, il narratore manzoniano, sostituitosi alla voce dell'Anonimo secentesco, si assume il compito di introdurre il suo lettore al mondo in cui sono ambientate le vicende di Renzo e Lucia. Dopo aver presentato lo scenario delle vicende - il noto "ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno" - la visuale si stringe su Don Abbondio, prima figura emblematica del romanzo di Alessandro Manzoni, che incontra i "bravi" che gli intimano di non sposare i due protagonisti. Sono infatti stati incaricati dal nobile locale, Don Rodrigo, di impedire il matrimonio tra Renzo e Lucia, dal momento che il signorotto si è invaghito della giovane. I due uomini minacciano, con la famosa frase “questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai”, il curato, che, codardo, accetta di non sposare i due giovani. Sulla strada di casa don Abbondio immagina la reazione del giovane sposo al suo rifiuto di celebrare il suo matrimonio. Tornato a casa, si confida con la sua serva, Perpetua, che gli consiglia di combattere le prepotenze di Don Rodrigo, rivolgendosi all’arcivescovo. Ma don Abbondio rifiuta il consiglio della donna, dando inizio alle vicende del romanzo, che porteranno alla separazione e alla fuga dei protagonisti. Il curato, stremato dalla dura giornata, si corica per dormire, pregando Perpetua di tacere su quanto è successo.
In questo primo capitolo Manzoni presenta alcune delle principali tematiche della sua opera: il potere dei "forti" che opprime i più deboli, l'attenta mescolanza di Storia ed invenzione, l'ironia sottile che condurrà tutta la narrazione.
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Dopo essersi ufficialmente presentato ai suoi lettori nel corso dell’Introduzione al romanzo, nel primo capitolo dei Promessi sposi il narratore dà finalmente avvio al suo racconto e lo fa attraverso una descrizione geografica del territorio di Lecco, ovvero del luogo in cui la storia ha inizio.
Il narratore dei Promessi sposi già dall’inizio, dal titolo del romanzo, in cui si ha una sovrapposizione possibile con l’autore reale Alessandro Manzoni, è un narratore che si qualifica come lombardo, che parla ad un pubblico di lettori che almeno in parte è immaginato anch’esso come lombardo. La descrizione quindi del lago, dei monti, delle valli e delle stradine di questo pezzettino della Lombardia è realizzata con un senso - potremmo dire - di familiarità con il territorio. Tuttavia, in questa descrizione dello spazio senza tempo della Lombardia della nostra storia, ben presto si insinuano degli elementi diversi, “altri”, che riguardano il tempo della storia. Infatti, andando a raccontare del borgo di Lecco, il narratore così dice:
Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia.
Ecco che dunque quella che viene descritta . tra l’altro già con quel tono ironico che contraddistinguerà poi anche altri interventi del narratore nel corso del romanzo - non è una Lombardia completamente senza tempo ma è una Lombardia del Seicento, sottoposta al dominio di una popolazione straniera, gli spagnoli. Oltre a questo dato politico-militare, in questo breve brano che abbiamo appena letto emergono già anche altri caratteri della società lombarda del ducato di Milano, caratteri in seguito sviluppati nel corso del romanzo ma anche già nella seconda parte del capitolo. È una società iniqua, ingiusta, in cui il potere è in mano ad alcune persone che oltre ad essere potenti sono anche prepotenti ed esercitano azioni oppressive nei confronti di una popolazione non solo innocente ma anche del tutto inerme. Popolazione che si compone di donne, di fanciulle di contadini e anche di quei due umili che costituiranno i protagonisti del nostro romanzo, i due promessi sposi. Questo spazio e questo tempo del racconto vengono descritti con una tecnica che oggi chiameremmo, prendendo a prestito il linguaggio cinematografico, una tecnica a zoom. Infatti si parte da una visione dall’alto, dell’intero territorio di Lecco che comprende tutto il lago, e si scende sempre più nel dettaglio, fino ad arrivare a ribaltare la prospettiva, a prendere quella non più dall’alto ma dal basso, di un viandante che cammini per una delle strade che attraversano il territorio e guardi il paesaggio d’intorno. E proprio in quest’atto viene ritratto il primo personaggio dei Promessi Sposi che entra sulla scena romanzesca, il curato di campagna Don Abbondio. Il narratore ci racconta che sulla sera del 7 novembre 1628 don Abbondio tornava verso casa dalla sua passeggiata quotidiana e trova ad aspettarlo ad un incrocio due individui della specie dei bravi, cioè due malviventi armati al soldo di un padrone di cui costituivano sostanzialmente il braccio armato per le azioni più delittuose. La specie dei bravi viene descritta dal nostro narratore con dovizia di particolari e anche con citazioni di documenti originali dell’epoca, con citazioni dal alcune grida, cioè da alcune leggi che riportavano le pene e le condanne nei confronti dei bravi e delle loro malefatte.
Questa citazione di documenti autentici è molto importante, perché conferma l’attenzione non soltanto dell’autore Manzoni ma anche del narratore così come si era proposto nell’Introduzione al romanzo per quel “vero documentabile” che costituisce di fatto l’ossatura del romanzo storico.
I nostri bravi aspettano don Abbondio per minacciarlo di morte a nome del loro padrone, don Rodrigo, se il giorno dopo avesse celebrato il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, che sono i due promessi sposi del titolo del nostro romanzo. Don Abbondio, al solo sentir nominare don Rodrigo, china letteralmente il capo in un inchino e non ha nulla da obiettare agli ordini dei bravi se non alcune frasi inconcluse e che si stemperano pavidamente in puntini di sospensione. Questo comportamento del nostro parroco, di don Abbondio, viene inquadrato poi dal narratore – che è onnisciente oltre che eterodiegetico – sia all’interno del quadro della società lombarda del seicento, una società come abbiamo detto iniqua e oppressiva nei confronti dei più deboli, sia nel quadro della vita e del pensiero di don Abbondio stesso. Il carattere di don Abbondio viene descritto anche attraverso alcune similitudini che sono rimaste molto celebri. La prima è una similitudine con un animale:
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato.
La seconda similitudine paragona don Abbondio non più ad un animale inerme, ma addirittura ad un oggetto inanimato, ad un vaso di terracotta che si trovi a dover convivere con più forti vasi di ferro che rischiano di romperlo:
Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete.
Don Abbondio dunque si fa prete non per vocazione, ma per la sicurezza che l’appartenere alla classe ecclesiastica gli poteva dare nella società seicentesca e anche per ricavarne un certo agio economico. Ma oltre a cercare la sicurezza della classe dei religiosi, don Abbondio - dice il narratore - si era costruito anche un suo sistema particolare per cercare di sopravvivere alla società in cui si era trovato a vivere:
Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate.
A don Abbondio dunque che è un personaggio che viene descritto come restio a fare delle scelte per non prendersene le responsabilità anche tragiche che ne possono derivare, e restio anche ad immischiarsi in alcun tipo di storia, viene invece affidata la responsabilità narrativa di dare l’avvio al racconto del romanzo. Egli cede - come abbiamo detto - al comando dei bravi e manda a don Rodrigo l’attestazione della propria obbedienza. Torna poi a casa dove lo sta aspettando la sua fida domestica Perpetua, che vedendolo sconvolto, gli domanda insistentemente che cosa sia successo. Dopo averlo saputo, consiglia al suo padrone di rivolgersi al potente cardinale Federigo Borromeo, per ottenerne l’aiuto. Don Abbondio a questo consiglio però è ancora più spaventato, anche perché i bravi gli avevano intimato di non raccontare a nessuno la minaccia che aveva subito. Quindi don Abbondio impone anche alla sua domestica – che è una nota pettegola – il silenzio e lo fa non solo a parole ma anche con un gesto molto espressivo, assente dalle parole a testo del romanzo, ma immortalato dalle illustrazioni che Francesco Gonin concordò con il Manzoni per l’edizione 1840. Questo gesto espressivo è il mettersi il dito davanti alla bocca, ed è un gesto che va confrontato non solo con quello analogo fatto dai bravi, ma anche con quello opposto fatto da un altro personaggio religioso all’interno del romanzo, cioè da fra’ Cristoforo. Fra’ Cristoforo infatti, nel capitolo sesto dei Promessi sposi, affronterà direttamente don Rodrigo, cosa che invece don Abbondio non aveva voluto fare neanche a parole, e alzerà il dito indice anche lui – non come don Abbondio per tacitare le oppressioni e quindi anche perpetuarle – bensì molto più in alto, verso il cielo, per condannare l’agire di don Rodrigo.