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"Adelchi" di Manzoni, coro atto terzo: parafrasi e commento della prima parte
Fortemente ribattuto dal ritmo martellante dei dodecasillabi che compongono le strofe del coro dell’atto terzo ecco che appunto questo testo, con un inizio molto solenne ed appunto molto cadenzato, introduce improvvisamente dei personaggi di cui la tragedia non si è ancora direttamente occupata, cioè le masse popolari. In effetti il coro, che è suddiviso in due parti di cui vedremo la suddivisione più avanti, si apre con uno sguardo sorprendente, non annunciato nel corso della tragedia in precedenza, sul popolo dei Latini, il popolo degli oppressi dei Longobardi, che avvertono ora, contro ogni loro attesa, il momento di una (che si rivelerà poi illusoria) liberazione, nel momento in cui i Franchi hanno varcato le chiuse ed hanno invaso il campo longobardo e stanno ora mettendo in fuga il popolo longobardo, cioè il popolo degli oppressori dei Latini. In effetti, questo coro presenta notevoli aspetti di novità rispetto alla tradizione di una tragedia e quindi del genere tragico. In questo coro Manzoni sembra dare per la prima volta compiuto sviluppo ad alcuni elementi che erano propri della sua riflessione poetica ed in particolar modo a quella riflessione sulla storia che lo aveva portato ad esprimere un’esigenza di ordine etico, oltre che storiografico, di guardare la storia dal basso, dal punto di vista delle masse popolari. In effetti i protagonisti del coro dell’atto terzo sono appunto nell’ordine i Latini, poi i Longobardi, che vengono messi in fuga e poi i Franchi, che incalzano i Longobardi. La cosa che colpisce subito, all’inizio del coro, nella prima parte che sostanzialmente appunto va dal verso 1 a 30, è una storia vista dal punto di vista degli sguardi degli umili. In effetti colpisce, leggendo l’inizio del coro, l’insistere sugli sguardi. Basti pensare alla seconda strofa: "Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti, qual raggio di sole da nuvoli folti, traluce dai padri la fiera virtù” E poi nella seconda parte della strofa:”Nei guardi, nei volti confuso ed incerto si mesce e discorda lo spregio sofferto col misero orgoglio d’un tempo che fu". I Latini sono inquadrati innanzitutto guardando il loro volto e concentrando l’attenzione sui loro sguardi. E’ come se Manzoni qui volesse vedere la storia adottando il punto di vista di una massa popolare, anonima, che cede, nel corso del coro, nel passaggio successivo, al popolo dei Longobardi. I Longobardi infatti, sono visti come delle fiere, come degli animali che fuggono incalzate dal nemico, appunto dai Franchi, e soprattutto vengono visti dal punto di vista dei Latini, che sono attoniti perchè non capiscono cosa sta succedendo, visto che questa dinamica storica avviene sopra le loro teste, senza che loro vi prendano parte. Ecco, dicevo che il popolo dei Latini “fra tema e desire, s'avanza e ristà; e adocchia” - guarda, scruta e, prosegue il testo - "ansanti li vede, quai trepide fere”, si rifece appunto ai Longobardi, “irsuti per tema le fulve criniere, le note latebre del covo cercar”, appunto come degli animali che stanno cercando la tana, mentre fuggono dal nemico, ed aggiunge: “E quivi, deposta l’usata minaccia, Le donne superbe, con pallida faccia”, ancora un insistere sul volto, “I figli pensosi pensose guatar", ancora il tema dello sguardo. E prosegue in conclusione della prima parte: “E sopra i fuggenti, con avido brando, quai cani disciolti, correndo, frugando, da ritta, da manca, guerrieri venir”. Se i Longobardi sono paragonati alla preda, all’animale preda di una caccia, ecco che i Franchi sono dei cani, cioè sono dei cani che stanno dando la caccia alla preda, alla vittima, suggerendo così un’immagine dei rapporti propri della storia intesi come rapporti di violenza e sopraffazione che è uno dei temi importanti della tragedia, appunto la dialettica tra oppressi ed oppressori. Ebbene: “li vede”, dice a proposito dei Latini che vedono i Franchi “e rapito d'ignoto contento, con l'agile speme precorre l'evento, e sogna la fine del duro servir.” Ecco quindi che questo coro si presenta, nella prima parte, con la volontà determinata di guardare in faccia la storia, ma la storia delle masse, la storia di chi non ha avuto mai voce nella storia e quindi la storia di chi, per la prima volta, è giunto il momento - secondo il Manzoni - di mettere al centro dell'indagine storica e di cercare di ovviare ad una colpa che la storiografia ha. Oltre tutto questo guardare agli sguardi ed ai volti delle masse comporta una sorta di allargamento prospettico in senso orizzontale della tragedia che in qualche modo va messo in relazione con il monologo del diacono Martino e con il coro dell’atto quarto, cioè con quelle sezioni della tragedia che presentano uno sfondamento in senso verticale della prospettiva, perchè sono due punti forti del testo in cui la storia viene letta collegandosi direttamente al piano divino. Mentre qui, nel coro dell’atto terzo abbiamo appunto prospettiva orizzontale, un allargamento dell’inquadratura storica, un allargamento dello sguardo che si concentra sulle persone e per di più sulle persone anonime, sulle masse anonime di cui appunto la storia non si è mai occupata. Questo consente di cogliere da vicino una dimensione fondamentale di questa tragedia e cioè il senso della complessità che questa tragedia comporta, molto di più che non il conte di Carmagnola, dal momento in cui si occupa non soltanto dei grandi della storia che sono al centro della vicenda, ma anche di personaggi minori. Penso per esempio a Svarto, che lotta per la sua affermazione sociale, ed appunto questo allargare lo sguardo alla massa popolare. Insomma anche con il genere tragico, in questo caso con Adelchi, Manzoni forza i limiti del genere letterario, sente che il genere così come tradizionalmente inteso, non è adeguato alla sua volontà di rappresentazione della complessità del reale, secondo quelle tre dimensioni della complessità che sono state messe in luce nelle lezioni precedenti, e quindi in qualche modo l'Adelchi fa sentire il contemporaneo impegno di Manzoni con il romanzo, con questo genere non genere come si vedrà più avanti, che evidentemente si presenta e si presenterà ancora di più successivamente nelle varie relazioni a Manzoni come il genere-non genere, cioè l’antigenere, un tentativo estremo di forzare i limiti della letterarietà.