Una tecnica particolare utilizzata nei lavori di sartoria è quella del patchwork: consiste nel cucire insieme pezzi di tessuto di diverso colore, forma, tema e tipo al fine di creare tappeti, strofinacci o coperte variopinte: nonostante si utilizzino porzioni stilisticamente slegate fra loro, il risultato è molto spesso apprezzabile e gradevole.
Allo stesso modo le biotecnologie moderne dispongono di “attrezzi da cucito”, che permettono di unire porzioni, in questo caso geniche, anche non correlate fra loro, tramite la tecnica del DNA ricombinante. La materia prima non è altro che il genoma di un organismo, o anche solo una parte di esso come un singolo gene; le forbici molecolari in grado di tagliare questo “tessuto” in maniera precisa e accurata sono degli enzimi chiamati endonucleasi di restrizione.
Il nome deriva dal fatto che essi tagliano acidi nucleici (-nucleasi) al loro interno (endo-), rompendone i legami covalenti principali, ovvero i legami fosfodiesterici. La precisione con cui questi enzimi tagliano il DNA in specifici punti ha aperto la strada all’utilizzo di porzioni definite, anche più piccole di un gene, dando origine a tutto in campo di indagine sperimentale: l'ingegneria genetica.
L’ingegneria genetica può essere considerata la base sulla quale si fondano le biotecnologie moderne, in quanto permette di isolare un gene dall’organismo che lo possiede e inserirlo in un ospite spesso di una specie diversa.
L’ingegneria genetica permette anche di realizzare un gene sintetico, costituito da parti di geni diversi provenienti da più organismi: per esempio siamo in grado di sostituire la sequenza di DNA che precede un gene, chiamata promotore, cambiando il livello o le condizioni di espressione di quel gene.
Il promotore porta questo nome in quanto in grado di favorire il posizionamento della RNA polimerasi e di conseguenza la trascrizione del gene che lo segue. Per fare un esempio è possibile porre a monte (cioè prima) di un gene codificante per una proteina umana il promotore dell’operone lac di E. coli, il quale permette la trascrizione in presenza di lattosio e in assenza di glucosio, e inserirlo all’interno del lievito S. cerevisiae: il gene risulterà espresso soltanto quando si deciderà di inserire lattosio nel mezzo di cultura del lievito, eliminando allo stesso tempo il glucosio, mentre fino ad allora il gene esogeno (in quanto derivante da un organismo diverso dall’ospite) sarà come “invisibile” alle RNA polimerasi.
Similmente è possibile fondere insieme due porzioni codificanti, producendo così una sorta di “ibrido”, ovvero una proteina che per una parte appartiene a un gene e per metà a un altro. Questa tecnica è stata utilizzata, ad esempio, per ottenere un enzima in grado di resistere alle alte temperature, poichè esso è stato integrata con una porzione derivante da un organismo termofilo.
La sintesi di un enzima dalle nuove caratteristiche viene chiamata ingegneria proteica, che permette in un certo senso di direzionare l’ingegneria genetica verso lo sviluppo di geni artificiali con una particolare sequenza.
Per esempio è possibile modificare l’attività o la specificità di un enzima cambiando alcuni residui della proteina: in alcuni casi cambiare anche solo un amminoacido può portare a grandi miglioramenti nell’uso della proteina stessa. Spesso vengono mutati i residui del sito attivo, che sono quelli primariamente coinvolti nell’interazione con il substrato: un esempio è dato da alcune proteasi, il cui sito specifico di taglio può essere modificato in diverso modo. Poichè le combinazioni possibili con cui mutare una proteina sono molteplici, è spesso utile usare la bioinformatica per prevedere la struttura 3D della proteina e come la modifica può influire sulla proteina stessa. Una volta identificato il residuo, il gene può essere mutato (o mutagenizzato) in maniera specifica: utilizzando tecniche di ingegneria genetica è possibile sostituire uno o più basi azotate per ottenere lo scopo.
Un passo oltre queste tecniche è l’ingegneria metabolica, che consiste nella ricostruzione di reti biologiche tipiche del metabolismo, avvalendosi anche della biologia dei sistemi, per poi modificarle ad un preciso scopo, come aumentare la produzione di una determinata sostanza.
Oltre a ciò è possibile inserire in un organismo una via metabolica (pathway) derivante da un altro, in modo da acquisire una capacità che prima non possedeva: un esempio è l’introduzione degli enzimi, e quindi dei geni, che permettano a lieviti modificati di utilizzare al meglio gli zuccheri pentosi, altrimenti molto poco sfruttati dalla cellula, per la produzione di biocarburanti.
La frontiera più “estrema” di queste applicazioni è la progettazione di un genoma interamente sintetico da inserire all’interno di un organismo al fine di riprogrammarne completamente l’organizzazione e la funzione interna. L’idea è quella di utilizzare la cellula come una piccola fabbrica che utilizza molecole organiche, preferibilmente a basso costo o di scarto, come materia prima al fine di produrre un bene o un servizio d’interesse.