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La poetica di Boccaccio nel "Decameron" e le caratteristiche della novella

Buona parte del successo del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375) si trova nelle caratteristiche inedite della nuova forma letteraria con cui è costruito, la novella. La dimensione contenuta, la messa a fuoco di una vicenda singola e senza digressioni, la trasmissione (almeno inizialmente) orale e la sua costruzione attorno a un evento “nuovo” o “singolare”, assicurano alla novella l’interesse e l’apprezzamento del nuovo pubblico borghese, e si riflettono nella situazione narrativa della “onesta brigata” di giovani narratori.

La brevitas della novella si rivela così lo strumento letterario più adatto per concentrare nel tempo del racconto (o nel “motto” risolutore che corona le singole narrazioni) la visione del mondo dell’autore; proprio per tale motivo, Boccaccio ha a cuore l’argomento della lunghezza delle novelle, tanto da tornarvi anche nelle Conclusioni del suo capolavoro. Dal fine utilitaristico della lettura, passiamo infatti all’obiettivo del godimento estetico-letterario, e questo “diletto” della narrazione, che si riflette anche nei comportamenti dei giovani nell’otium riparato dalla peste cittadina, cambia radicalmente i paradigmi di fruizione del testo. A ciò s'affianca la tematica amorosa, dominante nell’opera; e tuttavia Boccaccio si fa anche garante della veritas di ciò che racconta, e cioè dell’aderenza del testo alla realtà storica (borghese e mercantile) del tempo. Del resto, è sullo scenario più quotidiano possibile che può meglio spiccare quella “novità” e quella “imprevedibilità” che conquistano la partecipazione critico-emotiva del lettore.

 

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È stato detto che quello della novella è uno di quei casi in cui “lo studioso delle forme letterarie si trova a maneggiare un oggetto di palpabile evidenza e consolidata tradizione, e tuttavia sfuggente e refrattario a una definizione in chiave di ‘genere’” (Sergio Zatti): insomma, la novella si sa riconoscere ma non definire chiaramente. Prendendo come punto di riferimento la novella secondo la formula codificata dal Boccaccio nel Decameron, che per secoli costituisce l’”orizzonte d’attesa” della novella, tuttavia, possiamo provare a definirla in questo modo:

La novella ha taglio breve, narra in forma rapida e senza digressioni devianti una storia cui vengono date coordinate precise nel tempo e nello spazio, con caratteri di “novità” e di “verità” che la rendono particolarmente interessante e istruttiva.

È adatta alla trasmissione orale, ciò che ne consente una fruizione più ampia, la rende occasione e motivo di intrattenimento e di svago. Questa attitudine all’oralità trova nel Decameron testimonianza proprio nel fatto che le novelle vengono “raccontate”, messe in bocca, e non lette o scritte da “un’onesta brigata”. E questo artificio dei giovani “ragionanti” nel giardino che si raccontano le novelle ne esalta inoltre l’idoneità come momento significativo e caratterizzante dell’incontro conviviale, che era un uso diffuso, anzi una dimensione della vita quotidiana della società borghese.

1) La prima caratteristica fondante della novella è dunque la sua brevità, che va anzitutto intesa in senso quantitativo (ovvero come lunghezza), e che però, si badi, nel caso del Boccaccio può essere molto variabile. Le novelle boccacciane coprono infatti un range notevole: si passa dalle 363 parole della novella più breve (Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto: I, 9) alle 8838 di quella più lunga (Lo scolare e la vedova: VIII, 7). La brevità va dunque intesa soprattutto in senso qualitativo (come durata narrativa): il tempo del racconto è vissuto come unità e tende a ridursi in un punto, anzi a condensarsi spesso nel “motto risolutore” di ogni contrasto narrativo. La brevitas boccacciana si realizza quindi nella linearità del racconto, nella coerenza dello sviluppo della narrazione, senza digressioni non strettamente funzionali. Sulla questione della lunghezza del racconto Boccaccio sente il bisogno di attirare più volte l’attenzione del lettore, e vi si concentra anche nella Conclusione dell’Autore (Conclusione, 20), dove affronta la possibile critica – sarà tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe –  dicendo di avere:

E ancora, credo, sarà tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe; alle quali ancora dico che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai, infino a questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non m'è per ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto all'oziose e non all'altre: e a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli l'adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete. E oltre a questo, per ciò che né a Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, più distesamente parlar vi si conviene che a quegli che hanno negli studii gl'ingegni assottigliati.

La lunghezza del racconto è dunque funzionale al suo scopo, che non è più uno scopo prevalentemente utilitario, ma dichiarato con forza come godimento estetico e letterario. La “novella lunga”, dunque, nasce secondo Boccaccio anche come risposta ad un passaggio decisivo nella storia del pubblico, in cui si comincia a leggere volentieri non ciò che serve, ma ciò che piace, e in questo schema le donne, almeno da un punto di vista teorico, risultano tra l’altro avvantaggiate rispetto agli uomini.

2) Una seconda caratteristica fondante della novella è infatti proprio la sua finalità, che – a differenza di molti generi brevi precedenti – non è l’insegnamento o la persuasione ma anzitutto il puro piacere di raccontare e intrattenere. L’onesta brigata stessa che racconta le cento novelle del Decameron lo fa – come leggiamo nell’Introduzione alla Prima giornata – per semplice diletto, per passare senza noia le ore più calde del giorno.

Come voi vedete, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s'ode che le cicale su per gli ulivi, per che l'andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto: e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, faccianlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all'ora del vespro quello faccia che più gli piace.

Ma la sottolineatura della natura e degli effetti dilettevoli dell’atto del raccontare (ovviamente, quando il narratore ne è in grado, e qui l’esempio in negativo sarà dato dalla novella di Madonna Oretta, tanto breve quanto cardinale per la sua posizione centrale di rilevo, essendo cinquantunesima di cento) è un elemento costante e ricorrente per tutti i narratori del Decameron, compreso quindi, ad un livello strutturale superiore a quello dei dieci narratori della brigata, anche l’autore-narratore Boccaccio. Boccaccio si era premurato fin dal Proemio all’opera di sottolineare la finalità anzitutto consolatoria e dilettevole del suo lavoro, finalità tra l’altro motivata e maturata da un’esperienza autobiografica, fatta nelle vesti non di autore, ma di ascoltatore, di destinatario del processo narrativo. Boccaccio racconta infatti che in giovinezza aveva sofferto molto per amore, e che a questa sofferenza aveva trovato salvezza e refrigerio nei “piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni”.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra' quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto.

Per contraccambiare con gratitudine quanto ricevuto, egli si propone dunque di scrivere “per attendere ai piaceri delle donne”, in particolare “in soccorso e rifugio di quelle che amano”, le quali potranno trovare nella lettura “diletto”. Parimenti, certo, secondo la poetica oraziana dell’utile miscere dulci, potranno trovarvi anche utile consiglio: quindi il Decameron non esce ancora del tutto dall’ambito concettuale di una cultura esemplare ed utilitaria. Tuttavia, innanzitutto, anche questo “consiglio” non è mai disgiunto dal “passamento di noia” e, in secondo luogo, rispetto alla tradizione precedente cambia in maniera radicale il contenuto dell’insegnamento: nessuna norma rigida e fissa, ma un insieme di esperienze umane, che compongono una sorta di manuale di comportamenti adeguati alle situazioni in cui un essere umano, maschio o femmina che sia, può essere che si ritrovi a vivere.

3) Un’altra caratteristica della novella profondamente rinnovata da Boccaccio è infatti il requisito tradizionale della veritas, della aderenza alla realtà da parte del racconto. Tale verità infatti non è intesa più nel senso di valore assoluto, universalmente esemplare e inalterabile; il senso espresso dalla narrazione non è quindi né storico, né morale, né religioso, ma decisamente mondano, e la veritas si realizza anzitutto come “storicizzazione” dei personaggi e degli eventi narrati, attraverso localizzazioni precise e verosimili e riferimenti a personaggi della storia e della cultura anche contemporanea.

Furono con ammirazione ascoltati i casi di Rinaldo d'Asti dalle donne e da' giovani e la sua divozion commendata e Idio e san Giuliano ringraziati che al suo bisogno maggiore gli avevano prestato soccorso; né fu per ciò, quantunque cotal mezzo di nascoso si dicesse, la donna reputata sciocca che saputo aveva pigliare il bene che Idio a casa l'aveva mandato. E mentre che della buona notte che colei ebbe soghignando si ragionava [...]. Fu già nella nostra città un cavaliere il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono, fu de' Lamberti, e altri affermano lui essere stato degli Agolanti, forse più dal mestier de' figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento che da altro. Ma lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu ne' suoi tempi ricchissimo cavaliere, e ebbe tre figliuoli, de' quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tedaldo e il terzo Agolante, già belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte e loro, sì come a legittimi suoi eredi, ogni suo bene e mobile e stabile lasciò.

4) Un’ultima caratteristica da prendere in considerazione è infine che la “novella” si caratterizza e si motiva per la “novità” del fatto narrato e in qualche modo l’”eccezionalità” del caso novellistico, che lo rende meritevole di narrazione; di qui appunto il nome novella, nel senso di fatto nuovo, nuovamente accaduto o conosciuto e degno di essere comunicato, e la cui scelta tematica gode  nel Decameron della più ampia libertà, compresa una certa libertà licenziosa che gli costerà anche nei secoli non poche critiche e censure.

In ogni caso, nel Decameron l’esposizione, proprio per la “novità” e la “imprevedibilità” del caso narrato, si svolge in modo da coinvolgere la partecipazione emotiva del lettore e dell’ascoltatore, così come – e anche qui dobbiamo cogliere un’altra importante innovazione del Boccaccio – la loro partecipazione eventualmente critica. All’opposto dell’exemplum, che esponeva il caso esemplare con un senso prestabilito che il destinatario del messaggio doveva passivamente recepire), la morale che si può desumere dalle novelle boccacciane, l’abbiamo detto e lo ripetiamo, è spesso aperta e problematica, e agli ascoltatori/lettori è lasciata la responsabilità di definirne i confini.