Nel Decameron di Giovanni Boccaccio la “cornice” svolge un ruolo fondamentale, che va molto al di là del semplice collegamento tra le novelle che compongono il libro, o meglio “il primo grande libro della narrativa occidentale moderna”; e ciò traspare bene già dai tre livelli in cui possiamo dividere il testo, ovvero:
- il livello diegetico (e cioè “narrativo”) delle cento novelle;
- il livello diegetico della cornice, che svolge la funzione di macro-racconto o super-racconto;
- lo spazio extra-diegetico (e cioè non narrativo) che l’autore si riserva per prendere direttamente la parola (si pensi al Proemio, alle Conclusioni dell’autore o all’Introduzione alla quarta giornata).
Boccaccio ha organizzato con attenzione tutta la struttura della sua opera, disseminandovi una serie di segnali demarcativi, come le rubriche che introducono le giornate o le novelle, indicano l’apertura e la chiusura del libro (e i suoi ricchi rimandi intertestuali alla Commedia di Dante o agli amori di Ginevra e Lancillotto), e hanno pure un importante compito “di servizio” nei confronti del lettore.
Il Proemio individua poi chiaramente il pubblico cui Boccaccio rivolge in maniera privilegiata la propria opera: quelle “donne innamorate e lettrici” per cui il Decameron deve svolgere la funzione di consolazione e di diletto. L’importanza di questa scelta (in cui rientra anche la necessità di difendersi dagli accusatori sul piano stilistico e contenutistico) è tale che ne troviamo precise tracce sia nella fondamentale Introduzione alla quarta giornata del Decameron sia nelle Conclusioni di mano dello stesso autore.
La cornice fa allora da elemento di mediazione tra tutte le prospettive di lettura e di interpretazione del testo, alternando abilmente piani del discorso e punti di vista, dà una struttura e un ordine alle cento novelle e le contestualizza dal punto di vista storico e spaziale, assicurandone la veridicità. E in tutto ciò, l’atto narrativo, in tutte le sue possibili declinazioni, diventa per Boccaccio la reazione, umanistica e razionale, alla tragedia della peste.
La cornice svolge poi un’ultima ma cruciale funzione: la sua tripartizione si riflette nella suddivisione della lingua e dello stile dell’autore tra le parti più retoricamente elaborate (quelle appunto della cornice e delle rubriche) e quelle più vicine al volgare fiorentino, secondo il principio medievale della suddivisione degli stili.
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Siamo troppo spesso abituati a pensare al Decameron come a una raccolta di novelle o addirittura a sovrapporlo del tutto ad esse. È invece importante tener sempre presente che l’aspetto innovativo e fondamentale del Decameron è il fatto di essere un vero e proprio libro. Alberto Asor Rosa è arrivato addirittura a definirlo “il Libro per eccellenza, o, per lo meno, il primo Grande Libro della narrativa occidentale moderna”. Il Decameron, insomma, non si esaurisce nelle sue novelle, ma è un organismo strutturato, armonico e architettonicamente elaborato, di cui le novelle costituiscono una parte, importantissima, nei secoli imitatissima e piacevole, ma pur sempre una parte. L’architettura del Decameron si struttura attraverso tre principali livelli testuali.
Ad un primo livello interno propriamente diegetico, narrativo, troviamo le cento novelle. Le cento novelle sono però inserite, ad un secondo livello narrativo, nella cosiddetta “cornice”, una sorta di super-racconto che narra la vicenda di una “brigata” di dieci giovani che, incontratisi nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze durante la peste del 1348, decidono di partire insieme per una villa nel vicino contado dove potersi ritemprare per quindici giorni dai lutti e dalle brutture causate dall’epidemia conducendo una vita appartata, piacevole, dedicata a varie occupazioni e svaghi. In particolare, per passare il tempo nelle ore più calde del giorno, i giovani stabiliscono di raccontarsi a turno appunto quelle cento novelle poi ri-raccontate nel libro chiamato Decameron. Luoghi di rappresentazione di questa cornice all’interno del libro sono:
- l’Introduzione generale al Decameron;
- le Introduzioni e le Conclusioni alle varie giornate;
- i collegamenti fra le varie novelle, in cui si commenta quella appena sentita e si introduce la successiva.
Questa cornice è però poi a sua volta inquadrata da un ulteriore spazio in cui l’Autore prende direttamente la parola per esprimere le sue opinioni e le sue intenzioni sull’opera. Questo spazio non è dunque destinato alla narrazione ma piuttosto all’argomentazione: per questo lo chiameremo “extradiegetico”, che vuol dire per l’appunto “esterno alla narrazione”. In tale livello sono compresi:
- il Proemio;
- la Conclusione dell’autore;
- buona parte dell’Introduzione alla quarta giornata, dove la voce autoriale irrompe a sorpresa nel tessuto della cornice;
- appartiene tuttavia a questo terzo livello extradiegetico anche tutto l’apparato demarcativo che caratterizza il Libro: i margini e le suddivisioni della sua struttura architettonica sono infatti attentamente segnalati attraverso un ricco e meditato sistema di elementi paratestuali, le cosiddette rubriche, che compaiono all’inizio di ogni giornata del Decameron – riportandone il numero e il tema delle novelle – e all’inizio di ogni novella, dandone un breve riassunto.
Se nel Decameron il nome dell’autore non compare mai, è però significativo che sia proprio in queste rubriche – e solo in queste rubriche – a comparire invece la parola “autore”, a cui si fa riferimento per di più in terza persona:
Comincia la Prima giornata del Decameron, nella quale, dopo la dimostrazione fatta dall’autore per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno (Conclusione dell’autore).
Come vedremo anche più avanti, Boccaccio si pone così sempre al lettore anzitutto come autore del Libro e non già come autore delle novelle in esso contenute...
Che gli elementi demarcativi del Decameron siano luogo di intervento autoriale autentico e originale, è garantito dalla straordinaria testimonianza di un manoscritto autografo del Boccaccio, il cosiddetto Hamilton 90 oggi conservato a Berlino. Tale manoscritto fu realizzato da Boccaccio intorno al 1370-1372 e ci dà conto della cura amorevole che anche in tarda età ancora l’autore dedicava alla sua opera. Qui non solo le rubriche ma addirittura i diversi piani narrativi interni al testo sono marcati, in particolare attraverso un sistema di iniziali maiuscole di dimensione e colore diversi, a interrompere la scrittura continua tipica dei manoscritti medievali. Tale cura, insomma, rende chiaro che l’autore ci teneva a rendere percepibile anche visivamente la struttura interna dell’opera, a richiamare l’attenzione del lettore su di essa, a farvelo ragionare sopra. Del resto, come si diceva, è proprio la presenza di questa struttura che garantisce che ciò che si sta leggendo non è opera di un mero compilatore, ma di un autore con un preciso progetto.
Oltre a queste considerazioni, tuttavia, dobbiamo aggiungere che al lettore le rubriche forniscono anche una serie di servizi informativi importanti:
1) contengono in poco spazio gli elementi che l’autore considera essenziali per la corretta interpretazione del testo;
2) aiutano l’orientamento nel testo, consentendo anche la preventiva scelta dei contenuti da leggersi o saltarsi perché non graditi, funzione, questa, sottolineata dallo stesso Boccaccio nella Conclusione del Decameron.
Conviene nella moltitudine delle cose diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l'erbe migliori. Senza che, a avere a favellare a semplici giovinette, come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l'andar cercando e faticandosi in trovar cose molte esquisite, e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono e quelle che dilettano legga: elle, per non ingannare alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascose tengono.
Due rubriche segnano inoltre i confini più esterni del Libro, ovvero i suoi margini editoriali, l’apertura e la chiusura:
Comincia il libro chiamato Decameron COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE IN DIECE Dì DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI
[...] QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
Queste due frasi di incipit ed explicit significativamente anticipano o riassumono i caratteri strutturali dell’opera, a partire dal fatto di essere un Libro e non solo una raccolta, di contenere un tipo specifico e nuovo di racconto breve, la novella, e di essere organizzata attraverso l’artificio del super-racconto dei dieci giovani che si raccontano novelle per dieci giorni. Al particolare dei “diece dì” fa riferimento il nome del Libro: Decameron, composto in lingua greca che significa letteralmente “dieci giorni” e che richiama altri testi medievali, come l’Hexameron di Sant’Ambrogio. Ma la presenza intertestuale più significativa che traspare da queste poche righe di apertura del Decameron è sicuramente quella dantesca: già il numero di cento, le cento novelle del Decameron, non può che riportare alla mente un’altra celebre centuria, quella dei canti della Commedia. Oltre a questo, però, dobbiamo tenere in conto che il Decameron, oltre ad un nome, ha anche un cognome, quello di “prencipe Galeotto”, che è un rimando abbastanza esplicito, quasi una citazione, ai famosi versi (“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse | quel giorno più non vi leggemmo avante”) del quinto canto dell’Inferno dantesco, quello di Paolo e Francesca, i due sfortunati amanti il cui amore era nato durante la lettura di un romanzo cortese su Lancillotto e Ginevra.
Come in quel romanzo il personaggio del principe Galeotto era stato intermediario dell’amore tra Lancillotto e Ginevra e come poi il romanzo stesso era stato a sua volta intermediario per l’amore di Paolo e Francesca, così il Decameron sembra voler porsi fin dalle sue prime battute come mediatore tra la grande tradizione narrativa romanza – e la teoria d’amore che aveva espresso – e la sua realizzazione nella vita di tutti i giorni e di tutti gli uomini. Ovviamente, questo comporta nei confronti della letteratura d’evasione un ribaltamento di prospettiva rispetto a quella dantesca: Dante aveva infatti condannato la letteratura cortese per il suo ruolo nel determinare la dannazione di Paolo e Francesca alle pene infernali, in Boccaccio invece non c’è alcuna condanna ma anzi riabilitazione, anche perché il piano in cui egli si muove non è più quello di un percorso verticale, religioso, morale e nell’“al di là” com’era stato per Dante, ma è un piano tendenzialmente orizzontale, mondano, umano. E non è un caso che “umana cosa” appunto, siano le prime parole che incontriamo sotto la rubrica di apertura, nel Proemio (“Umana cosa è aver compassione degli afflitti”), a indicare la finalità anzitutto laica dell’operazione letteraria boccaccesca.
Insomma, le due frasi di incipit ed explicit chiudono il libro in precisi e inviolabili confini editoriali ma al contempo aprono finestre su tutti gli elementi della comunicazione letteraria coinvolti: dal sistema letterario in uso, all’autorialità, fino alla imprescindibile controparte del pubblico di lettori. Il richiamo alla Francesca dantesca, cioè a una donna innamorata e lettrice, introduce infatti anche al tema del pubblico privilegiato al quale pensava Boccaccio per il suo libro. La composizione di questo pubblico viene dichiarata esplicitamente e spiegata nel Proemio: destinatarie d’elezione sono le donne che amano, alle quali – rispetto agli uomini – la Fortuna ha dato non solo meno forza per sopportare le pene, ma anche meno occasioni per distrarsene. Ecco che dunque il Libro stesso si propone come risposta dell’ingegno umano ai casi della Fortuna, motivi entrambi che ritorneranno ampiamente nelle tematiche fondamentali delle cento novelle.
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da' voleri, da' piaceri, da' comandamenti de' padri, delle madri, de' fratelli e de' mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de' quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Il riferimento privilegiato al pubblico femminile è poi presente anche negli altri due luoghi di intervento autoriale, aperti appunto dalle due allocuzioni: alle “Carissime donne” (Introduzione della quarta giornata) e alle “Nobilissime giovani” (Conclusione). Questi due spazi servono in particolare al Boccaccio per difendersi dalle critiche mosse al suo lavoro, riguardanti sia lo stesso intento di rivolgersi alle donne sia numerosi aspetti stilistici e contenutistici connessi con le caratteristiche di genere dell’opera.
IV introduzione
- scelta delle donne come destinatarie
- sconvenienza del dedicarsi ad una materia bassa
- marginalità letteraria e sociale del genere novellistico
Conclusione
- eccesso di licenziosità nel contenuto e nelle parole
- qualità variabile delle novelle (accanto a belle ci sono meno belle)
- marginalità letteraria e sociale del genere novellistico
Le risposte alle critiche da parte di Boccaccio ruotano intorno ad alcuni principi cardine: il rispetto della regola della convenienza, cioè della corrispondenza tra forma e contenuto, la centralità del lettore nell’interpretazione del senso del testo (per cui a determinare la convenienza o sconvenienza del testo è l’intenzione di chi lo legge) e l’affermazione del potere della Natura, per la quale ad esempio non è possibile non provare attrazione per le donne. Per sostenere quest’ultimo punto Boccaccio arriva anche raccontare una breve novella - la celebre novella delle papere, la cui fonte è il Novellino – novella che porta quindi il numero reale delle novelle del Decameron a 101. Un’altra strategia messa in campo per difendersi è però quella di ricordare la stratificazione testuale del testo. Se qualcuno volesse criticare la bellezza di alcune novelle, dice Boccaccio che non è con lui che se la deve prendere, perché “di quelle” non è stato “lo ‘nventore e lo scrittore”. Boccaccio quindi ancora una volta avoca a sé la responsabilità principale solo dell’impianto dell’opera e della cornice, mentre fa ricadere la responsabilità della diegesi novellistica sui narratori della cornice.
Saranno similmente di quelle che diranno qui esserne alcune che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio. Concedasi: ma io non pote’ né doveva scrivere se non le raccontate, e perciò esse che le dissero le dovevan dir belle e io l’avrei scritte belle. Ma se pur prosuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo ‘nventore e lo scrittore, che non fui, dico che non mi vergognerei che tutte belle non fossero, perciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente.
La presenza dell’espediente della cornice del Decameron assume quindi un’importante funzione: quella di mediare tra il narratore di primo grado e la materia narrativa delle novelle, di diffrangere la sua voce in dieci voci, non necessariamente concordanti tra loro o con l’autore stesso (anche perché a ognuna delle voci narranti corrisponde un personaggio con specifiche caratteristiche che lo rendono un particolare “tipo” psicologico e passionale, e che dunque si rapporta con la materia narrativa secondo preferenze diverse). La cornice, insomma, consente al Boccaccio un’alternanza di piani del discorso e di punti di vista, e quindi un approccio dialettico e problematico a quanto narrato. Accanto a questa, un'altra funzione della cornice è ovviamente quella “ordinatrice”, strutturale: la cornice consente cioè di ordinare la vasta materia delle 100 novelle secondo nuclei tematici, di ordinarne il racconto in sequenza, di creare collegamenti e connessioni, in una parola di formare il “libro”. Nel loro idillio campestre, i dieci giovani della brigata conducono la propria vita secondo norme e regole precise che scandiscono tutta l’organizzazione della giornata e investono anche il passatempo delle novelle. Questa meticolosa organizzazione si riflette così perfettamente nell’impalcatura del libro: ogni giornata si apre infatti con una breve Introduzione che costituisce una sorta di apertura del sipario, tanto è vero che nella maggior parte dei casi viene descritta l’alba. Si raccontano poi le attività dei giovani fino al momento della narrazione delle novelle. Ogni novella si apre quindi con un momento di raccordo, in cui i giovani commentano quanto sentito e si scambiano il turno di parola. Al termine delle dieci novelle della giornata, troviamo una Conclusione che racconta dell’elezione del re o della regina della giornata successiva, degli svaghi a cui la brigata si dedica fino all’ora di andare a dormire, della scelta del tema delle novelle della giornata successiva. Si riporta infine una canzone o una ballata composta e cantata a turno da uno dei novellatori.
Questo tratto di costruzione dell’ordine che caratterizza la cornice non investe solo l’aspetto architettonico dell’opera, bensì definisce programmaticamente l’atmosfera intellettuale, il “luogo dello spirito” potremmo dire, in cui viene indicato come possibile l’atto stesso del narrare. Per comprendere appieno questo punto dobbiamo prima prendere in considerazione quello che Boccaccio stesso definisce “l’orrido cominciamento” del Decameron: la celeberrima descrizione della terribile epidemia di peste nera a Firenze che fornirà lo stimolo e l’occasione alla congregazione dei giovani e al racconto delle novelle.
Questa descrizione della peste occupa ben quaranta paragrafi dell’Introduzione alla prima giornata del Decameron ed è tradizionalmente considerata uno dei punti più alti della narrativa boccacciana. Una così curata disposizione in apertura di un tale avvenimento storico di portata epocale, ancora ben vivo nella memoria dei primi lettori fiorentini e non solo dell’opera, sottolinea la volontà del Boccaccio di dare una precisa e reale contestualizzazione storica e spaziale alla cornice e con essa quindi al momento di nascita dei racconti stessi. La verità storica della descrizione che viene data della peste è tra l’altro garantita dalla dichiarazione del Narratore di essere stato testimone oculare del fatto ("Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna persona udito l’avessi"); mentre la veridicità delle vicende dei giovani della brigata è assicurata dall’affidabilità della fonte, pur non dichiarata, da cui si sono apprese ("stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l'una all'altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte"). Tale insistere sulla veritas della cornice assume poi la funzione di siglare la garanzia della veritas peculiare di genere che sarà poi delle novelle successive.
In questa descrizione, dunque, il Narratore, racconta le origini e la diffusione dell’epidemia, i suoi sintomi, i tentativi di cura e prevenzione, il suo decorso solitamente mortale. Ma gli aspetti su cui maggiormente si sofferma riguardano le conseguenze psicologiche e comportamentali dell’epidemia sulla popolazione fiorentina, per cui i legami famigliari si allentano o rompono, la moralità e l’onestà vengono sospese o sovvertite, i malati lasciati senza aiuto, i funerali disertati. Insomma, la peste ha una funzione totalmente disgregatrice della società. È in questo quadro catastrofico e caotico, senza più regole, che si colloca l’incontro dei giovani che formeranno poi l’onesta brigata nella chiesa di Santa Maria Novella e matura la loro decisione di recarsi nel contado per vivere una vita più serena e regolata. La decisione, si badi, è intrapresa in particolare dalle donne, protagoniste attive delle azioni della cornice molto più degli uomini, ed è accolta solo dopo una discussione sull’onestà (parola significativa della poetica boccacciana) di tale azione, cioè sull’immediato ripristino della moralità, una moralità espressa in termini intellettuali, di ragione, di adeguatezza di comportamento: “a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, dia ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere” (Introduzione, paragrafo 53). L’ordinata regolarità della vita dell’onesta brigata, il loro tentativo di ricomporre una vita associata, nel contesto di un luogo separato, a contatto con una natura serena e pacificata fatta di giardini e fontane, costituiscono dunque una deliberata ricerca, un progetto consapevolmente perseguito dai novellatori, e sono la condizione necessaria per le loro conversazioni pomeridiane e quindi l’avvio dei procedimenti narrativi.
La tripartizione strutturale - novelle, cornice, spazio extradiegetico dell’autore – ha ripercussioni anche sulla lingua e lo stile del testo.
Novelle
(voce dei dieci novellatori)
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Spazio autoriale e cornice (voce dell’autore e del narratore di primo grado)
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- “[queste novellette] non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono.” (Introduzione IV giornata)
Riferimento alla distinzione della retorica classica, ripresa da quella medievale, tra stile umile (che comprende anche il comico), stile mediocre e stile grave.
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Stile “boccacciano” per eccellenza.
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- domina la varietas, secondo la convenienza tra forma e contenuto> alla multiformità delle novelle, dei personaggi, degli ambienti e delle situazioni corrispondono stili e registri diversi.
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- caratterizzato da tono elevato, ornato retoricamente e esemplato sui modelli della retorica classica e medievale.
- esempi tratti dalla descrizione della peste, considerata uno dei vertici di questa componente stilistica.
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- parti in stile elevato, come quello usato nella cornice - mimesi dell’oralità
Di cui fanno parte anche:
- componenti ironiche e parodiche - stravolgimento e invenzione linguistica (per censurare la licenziosità) - caratterizzazione linguistica del luogo (con incursione nelle varietà lessicali regionali), della classe sociale del personaggio (varietà di registri, lessico specialistico delle arti e dei mestieri)
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- periodi lunghi e dalla complessa architettura ipotattica - costrutti colti e latineggianti (infinitive con l’accusativo, verba timendi con reggenza negativa, gerundi e participi assoluti, posposizione del verbo in clausola...) - procedimenti retorici vari: parallelismi inversioni, chiasmi, anafore... - ars dictandi medievale: uso del cursus, cioè della cura dell’andamento ritrmico e armonico del periodo, in particolare nella chiusura di frase o periodo. - nelle Introduzioni alle varie giornate richiamo alla lirica.
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