Nel sistema dei personaggi de I Promessi Sposi, Fra Cristoforo occupa un ruolo di primo piano. Egli infatti è il frate cappuccino che, sin dai capitoli iniziali, prova a difendere Lucia e Renzo dalle mire di Don Rodrigo, incarnando uno dei migliori esempi del cattolicesimo provvidenziale manzoniano. Proprio per questo motivo, il narratore dedica ampio spazio a questa figura, raccontandone per esteso la drammatica storia personale, che lo ha visto diventare un uomo di Chiesa schierato contro le prepotenze dei potenti solo dopo una giovinezza scapestrata, in cui Lodovico - questo il vero nome del personaggio - si è addirittura macchiato di un omicidio per futili motivi. Il giovane Lodovico mostrava un’indole impetuosa, che lo portò all’uccisione di un uomo; diventato ormai monaco, il frate riesce a placare questa natura impulsiva, dimostrandosi un uomo saggio e prudente, adatto a consigliare i due giovani protagonisti, Renzo e Lucia.
Manzoni presta allora molta attenzione nell'introdurre e nel presentare questa figura, la cui funzione morale è sottolineata anche dai rapporti di consonanza o di antitesi con le altre figure che ruotano attorno ai protagonisti principali: il cardinale Federigo Borromeo, Don Abbondio, la monaca di Monza. Il confronto con un personaggio che rivela maggiormente la natura del frate e la sua levatura morale è quello con don Rodrigo nel capitolo VI. Il colloquio tra i due uomini dimostra la forza di Fra Cristoforo che spaventa e risveglia, anche se solo per un attimo, la coscienza morale del nobile, attraverso la minaccia, “Verrà un giorno...”, che atterisce Don Rodrigo, il quale in punto di morte ripenserà alle parole del frate.
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Quello di Fra Cristoforo è un personaggio che nel romanzo conosciamo inizialmente per sentito dire e che così, quando finalmente entra direttamente in scena nel romanzo, richiede che si soddisfi un po’ la curiosità del lettore.
Chi era questo padre Cristoforo? Il nostro narratore, onnisciente e coscienzioso, fa un po’ come lo scolaretto che ha fatto bene i suoi compiti e tira fuori un bel dossier sul personaggio, completo di immagini, nomi, avvenimenti e anche scheletri nell’armadio. La prima immagine che sottopone alla nostra attenzione di Fra Cristoforo è questa [min. 00:36], corredata di una dettagliata descrizione fisica: padre Cristoforo è un frate cappuccino, si trova più verso i 60 che i 50 anni, ha barba e capelli bianchi e fattezze fisiche che sono specchio di un’anima che si intuisce sì umile e santa, ma che al contempo ha qualcosa di inquieto, qualcosa di irrequieto. Il nostro narratore precisa così subito che Fra Cristoforo non era sempre stato così, come nell’immagine, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico.
Ed eccolo qui [min. 1:08], il nostro Lodovico all’età di 30 anni, vestito come un nobile, ma figlio di un borghese, di un ricco mercante. Nell’immagine si vede bene che è circondato da dei brutti ceffi, da dei Bravi che sono intorno a lui come bodyguards intorno a un divo. Di una pletora di Bravacci, di bodyguards, il nostro Lodovico aveva ben bisogno perché viveva la propria vita come una sorta di guerra continua: da una parte smaniava infatti di entrare nel mondo dei veri nobili, quelli di sangue e non solo di ricchezza come lui (tra l’altro senza riuscirci, consumandosi in gare di sfoggi, di magnificenze e ricchezze che rischiavano anche di metterlo in ridicolo) e dall’altra, avendo in orrore soprusi e angherie, volentieri prendeva le parti dei più deboli e si costruiva la nomea di “vendicator degli oppressi”. Dice il narratore: "non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni, pensieri e anche crisi di coscienza".
Fatto sta che un bel giorno succede un fattaccio e il nostro Lodovico diventa niente meno che un assassino, e per di più per futili motivi: passeggiando per strada si ritrova a questionare con un signorotto superbo e tracotante su questioni di precedenza “passo prima io, passi prima tu”; inizia un duello e il signorotto in questione infilza un tal Cristoforo, servitore di Lodovico. A sua volta Lodovico infilza il signorotto. Questo delitto a catena di matrice shakespeariana (non può fare a meno di ricordarci quello del Romeo e Giulietta che coinvolge Romeo, Benvolio e Mercuzio) porta Lodovico a fuggire verso quello che potremo chiamare un “paradiso penale dell’epoca”: una Chiesa con annesso convento di cappuccini. Qui Lodovico cambia vita, si converte, diventa frate, prende il nome dell’ucciso Cristoforo e poi compie il suo primo atto di umiltà, andando a chiedere formalmente scusa alla famiglia dell’ucciso. La scena è teatrale, secondo il gusto barocco del seicento, perché la famiglia del signorotto lo aspetta nel pieno del suo sfarzo per prendersi una bella rivincita che è anche una rivincita di classe. Grazie all’umiltà di questo nuovo frate, invece, la famiglia si ritrova tutta convertita, almeno per un giorno, alla logica del perdono e della fede. In ogni caso è così che da un assassino ci ritroviamo una bella conversione e Lodovico diventa Cristoforo. Questo dramma, questa storia della conversione viene raccontata nel capitolo IV del romanzo, un capitolo in cui il tempo della storia e quello del racconto tendono a coincidere. Il capitolo si apre infatti sulla partenza di Cristoforo dal convento di Pescarenico per andare alla casetta di Agnese e Lucia e si chiude con il suo arrivo alla casetta. Nel mentre che il padre percorre le due miglia di strada, ci viene raccontata la sua storia in flashback. Tuttavia questo racconto serve sì a dire chi era padre Cristoforo, ma anche a spiegare il perché dei suoi comportamenti nel romanzo, cioè spiegare le sue funzioni:
essere antagonista di Don Rodrigo; essere aiutante e figura paterna per Renzo e Lucia; essere uomo del perdono e della conversione, quindi figura su cui convergono alcuni dei più alti ideali di fede del Manzoni.
Fra Cristoforo è una delle quattro principali figure di religiosi all’interno del romanzo, accanto a Don Abbondio, alla sventurata monaca di Monza e al grande cardinale Federico Borromeo. I rapporti di analogia e di antitesi tra questi quattro personaggi possono essere schematizzati. Distinguiamo innanzitutto i personaggi di Federico Borromeo e della monaca di Monza, che sono personaggi non solo nobili, ma anche costruiti sulla base di testimonianze storiche. Dall’altra i personaggi di Fra Cristoforo e Don Abbondio che sono personaggi di origine borghese e di cui la storia non parla, frutto dell’invenzione dell’autore. Dobbiamo fare tuttavia anche una distinzione diversa: tra monaca di Monza e Don Abbondio in quanto personaggi oppositori dei nostri protagonisti e non certo illuminati dalla grazia, contro invece Federico Borromeo e Fra Cristoforo che non solo sono illuminati della grazia, ma sono anche determinanti in una serie di conversioni: Federico Borromeo in quella dell’Innominato e Fra Cristoforo nel trasformare in un perdono la rabbia vendicativa di Renzo nei confronti di Don Rodrigo. I rapporti tra Fra Cristoforo e Don Abbondio diventano più fitti se si confrontano anche i modi in cui i due personaggi vengono presentati, entrambi sulla strada: padre Cristoforo mentre si reca alla casetta di Agnese e Lucia e Don Abbondio subito dopo l’incontro con i Bravi, mentre fugge. Nel romanzo Fra Cristoforo ha sempre davanti a sé una strada che percorre, mentre Don Abbondio una strada che subisce. Questo avviene per tutto il romanzo: per Don Abbondio possiamo pensare a episodi come la cavalcata a fianco dell’Innominato o la fuga davanti alla calata dei Lanzichenecchi; tutti episodi nei quali Don Abbondio si presenta come figura comica o, come direbbe Pirandello, “umoristica”. Fra Cristoforo percorre invece consapevolmente tutte le strade su cui lo porta la storia del romanzo, a partire già dalla genesi primo genere del personaggio, quella del duello con il signorotto locale, per poi proseguire nel capitolo V sulla strada che lo porta allo scontro diretto con Don Rodrigo, fino ad arrivare, al termine del romanzo, alla strada che lo porta a Milano, nel lazzaretto durante la peste. Anche quando la strada di Fra Cristoforo è prescritta, come nel capitolo XIX quando è costretto a partire per Rimini, la sua fede, la fiducia nei progetti divini fanno sì che anche questa strada prescritta sia comunque percorsa, percorsa nel nome della fede.
Il punto del romanzo in cui maggiormente campeggia la figura di Fra Cristoforo è però quello dello scontro verbale con Don Rodrigo, tra il V e il VI capitolo; uno scontro che ha molti elementi di analogia con quello sostenuto da Fra Cristoforo nella gioventù, quando era ancora Lodovico. Le analogie partono anche dal copione di avvio dello scontro, che riguarda una disputa sul codice cavalleresco: Fra Cristoforo infatti va al castello di Don Rodrigo per parlare con lui di Lucia e si ritrova alla mensa del Signore mentre sta avvenendo una discussione tra il podestà e il conte Attilio a proposito del fatto che l’ambasciator porti o non porti pena e quindi possa essere legittimamente bastonato secondo il codice cavalleresco.
Questo scontro tra Fra Cristoforo e Don Rodrigo viene reso dal narratore con molta attenzione alla gestualità e al suo aspetto teatrale; per esempio Don Rodrigo viene ritratto all’inizio dello scontro con una didascalia che non stonerebbe in una sceneggiatura da film western: Don Rodrigo, infatti, si pianta “in piedi nel mezzo della sala” e pronuncia delle parole che suonano come “In che posso ubbidirla?”, ma che in realtà vogliono dire “bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati”. Di fronte all’atteggiamento arrogante di Don Rodrigo, Fra Cristoforo ha invece un comportamento molto conciliante, di supplica, di chi trattiene sé stesso e cerca di trattenere in qualche modo anche l’arroganza degli altri. A un certo punto, tuttavia, anche Fra Cristoforo non ce la fa più di fronte alla sfrontatezza di Don Rodrigo: l’uomo vecchio, il battagliero Lodovico si trova d’accordo con il nuovo, e anche Fra Cristoforo fa un gesto da film western: si sposta sul piede destro, mette la destra sull’anca, alza la mano sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, quasi fosse una spada, e gli pianta in faccia “due occhi infiammati”, partendo con una predica che Don Rodrigo certo non accetta. Cercano di finire con una tenebrosa profezia, alla quale Don Rodrigo reagisce abbastanza male, afferrando la mano di Fra Cristoforo nei suoi artigli, irrompendo poi in una serie di insulti alla volta del prete, gridando: “escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato”. Don Rodrigo non è certo un uomo in grado di usare le parole come un fioretto, anzi è un personaggio che nega le parole, che volgarizza le parole. Anche nella disputa a proposito del codice cavalleresco, Don Rodrigo non interviene mai proprio perché non è in grado di argomentare con le parole.
Non a caso nella descrizione di questi personaggi a Don Rodrigo vengono sempre negate le metafore che sono invece tutte per Fra Cristoforo. Fra Cristoforo viene descritto per esempio come un “albero agitato” che nella burrasca “ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda”. Questa è una metafora usata dopo gli insulti di Don Rodrigo. Una seconda metafora molto espressiva per Fra Cristoforo è quella che si ha all’inizio del capitolo VII quando Fra Cristoforo è ancora una volta per strada, di ritorno dal palazzotto di Don Rodrigo, verso la casetta di Agnese e Lucia. Questa metafora è proprio con un capitano, con un uomo di battaglia, “un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovo ordini.” È da notare l’accostamento binario di elementi “afflitto, ma non scoraggito”, “sopra pensiero, ma non sbalordito” che caratterizza la figura di Fra Cristoforo, una figura di personaggio umile, ma al contempo inquieto. Dopo essere stato paragonato a un combattente, la prima parola di Fra Cristoforo sarà una parola di pace: “«La pace sia con voi» disse, nell’entrare. «Non c’è nulla da sperare dall’uomo, tanto più bisogna confidare in Dio.” Fra Cristoforo, un uomo che combatte, uomo per cui si possono usare metafore guerresche, ma anche uomo della pace, della conversione e del perdono.