Torquato Tasso e la poetica tra Rinascimento e Controriforma

La laicità del Rinascimento e i precetti della Controriforma: le due anime di Torquato Tasso. A cura di Alessandro Condina.
 
Sia nella Gerusalemme Liberata, sia in altre opere (come l'Aminta) troviamo echi della poetica del Rinascimento lì dove l'atmosfera appare più rilassata e soave. Vengono così conservati alcuni aspetti e stati d'animo propri della cultura libera e laica di inizio Cinquecento, una stagione tanto intensa quanto breve. Il destino di Tasso è, pertanto, quello di dover tenere insieme la spensieratezza e il piacere del Rinascimento con le esigenze della Controriforma. Nel coro dell'atto primo dell'Aminta, c'è una celebrazione dell'Età dell'Oro perduta: essa era riconosciuta tale non a causa dell'eterna primavera, degli alberi che davano frutti, della mancanza di combattimenti e di conquiste, ma soltanto per l'assenza di un "idol d'errori, idol d'inganno", cioè l'Onore (indentificato dallo stesso Tasso con la lettera maiuscola). Esso può ovviamente prefigurare anche il senso del peccato e il senso dell'obbligo imposti dalla religione; tanto è vero che lo stesso Tasso sottolinea come nell'Età dell'Oro l'unico precetto fosse: "se ei piace, ei lice" (se piace, è lecito). Lo stato d'animo dell'onore, connotato ancora una volta negativamente, lo ritroviamo rappresentato nel Giardino di Armida della Gerusalemme Liberata: Rinaldo è tenuto lontano dal suo dovere da una passione a cui non riesce a ribellarsi, se non con un intervento esterno.
 
Alessandro Condina è giornalista e docente liceale di italiano e latino a Milano. Si è laureato all'università di Messina con una tesi sul Commentario all'Apocalisse di Apringio di Beja. Collabora con varie testate online, tra cui D - La Repubblica e Blogo. Pensa che il web possa essere un ottimo strumento per la didattica, oltre che per l'informazione.
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Ne La Gerusalemme liberata e in altre opere, per esempio L’Aminta, Tasso conserva alcuni stati d’animo, alcune manifestazioni che erano proprie del primo Cinquecento, cioè di quella cultura laica, libera, spensierata che per pochissimo tempo era arrivata al massimo del suo splendore e proprio mentre era nel momento di massimo splendore già intravedeva la sua fine. Il destino di Tasso è proprio quello di dover tenere collegati questi due aspetti: la libertà, la spensieratezza, il piacere del Rinascimento con l’esigenza della Controriforma. Guardiamo innanzitutto il coro dell’atto I de L’Aminta:

O bella età de l'oro,
non già perché di latte
se 'n corse il fiume e stillò mele il bosco:
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz'ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Si tratta di una celebrazione dell’età dell’oro, un’età dell’oro perduta. In realtà, non era un’età dell’oro perché c’era l’eterna primavera, perché gli alberi davano frutti, perché non c’erano combattimenti o conquiste,

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quel'alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.

L’assenza di sofferenza: l’età dell’oro è dovuta semplicemente all’assenza di questo “idolo d’errori e idol di inganno”, l’onore, il senso dell’onore, quello che può nascondere il senso del peccato, il senso dell’obbligo, il senso degli obblighi imposti dalla religione; quell’onore non aveva ancora avvelenato le vite degli uomini e il precetto che prevaleva e che tutti seguivano era: “S’ei piace, ei lice”, cioè se piace è lecito, giusto, accettabile. Questo coro si chiude con l’invito all’onore di andarsene, di lasciar perdere almeno il mondo pastorale (L’Aminta è una favola pastorale); il coro, che esprime il punto di vista dell’autore alla maniera della tragedia greca, dice:

Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
tu domator de' Regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
agl'illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.

Questo invito all’amore, alla soddisfazione dei sentimenti, delle passioni, del desiderio è qualcosa che ne L’Aminta è ancora accettabile, mentre ne La Gerusalemme Liberata è già segno di male, caratterizzato da un’aurea di negatività; è un elemento già condannato, già respinto come qualcosa di troppo torbido, negativo, ma comunque desiderato. Questo stesso stato d’animo, questa stessa sensazione è presente nel giardino di Armida:

Vezzosi augelli infra le verdi fronde
temprano a prova lascivette note
mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
garrir, che variamente ella percote
quando taccion gli augelli, alto risponde;
quando cantan gli augei, più lieve scote.
Sia caso o d'arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica ora.

Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
di color vari ed ha purpureo il rostro,
e lingua snoda in guisa larga, e parte
la voce sí ch'assembra il sermon nostro.
Questi ivi allor continovò con arte
tanta il parlar che fu mirabil mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
e fermaro i susurri in aria i venti.

La rappresentazione di questo giardino di Armida, giardino di bellezze, di gioie è qualcosa che tiene Rinaldo lontano dal suo dovere, ma non con le catene perché è qualcosa che lo conquista; è una passione a cui lui non riesce a sottrarsi se non con un intervento esterno:

Fra melodia sí tenera, fra tante
vaghezze allettatrici e lusinghiere,
va quella coppia, e rigida e costante
se stessa indura a i vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo inante
penetra e vede, o pargli di vedere,
vede pur certo il vago e la diletta,
ch'egli è in grembo a la donna, essa a l'erbetta.

Questa immagine dell’innamorato in grembo alla sua donna e lei mollemente appoggiata sull’erba; questa passione e dolcezza che fino a pochi decenni prima erano leciti (“S’ei piace, ei lice”) e che adesso, dopo la composizione de La Gerusalemme liberata, non sono più consentiti o non possono essere espressi come qualcosa di realmente positivo. Questo è il Rinascimento che Tasso rappresenta ancora, ma a cui non può più veramente aderire.