Nel quarto capitolo della prima parte del Mastro don Gesualdo Verga non presenta solo la giornata di lavoro del “mastro” sottolineando l’ansia meticolosa con cui egli provvede alla propria “roba”; alle “due di notte”, infatti, Gesualdo può finalmente trovare un attimo di riposo presso la Canziria, un suo podere dove vive Diodata, la madre dei suoi figli, che gli fa pure da serva.
L'arrivo di Gesualdo nella sua proprietà, dopo una giornata per le campagne infuocate, obbedisce ancora alla legge dell’accumulo e del lavoro indefesso: se all’ingresso in casa (oltre a Diodata, sono presenti il massaro Carmine, Brasi Camauro e Nanni l’Orbo), il protagonista si concede una delle sue solite reprimenda contro chi lavora poco, soprattutto se è suo dipendente (“Ehi? non c’è nessuno? Roba senza padrone, quando manco io!”), più avanti il tono diventa presto più intimo e domestico, tanto che le risorse stilistiche dell’indiretto libero possono mettere in luce un altro aspetto (quasi antitetico rispetto a quello più esterno e superficiale) del carattere di Gesualdo. Si noti come emerga sottilmente una vena di commozione di fronte all’idillio rurale di fronte ai suoi occhi:
Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: - il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch’essa avidamente nella bica dell’orzo, povera bestia - un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava.
Questo paesaggio e l’attenta descrizione di Diodata (“Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate e il vento aspro della montagna; dei capelli di gente ricca, e degli occhi castani, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti che si ostinava a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo, lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche - gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide”) introducono allora un attimo di intimità tra i due protagonisti, davanti alla “pianura di Passanitello [...] illuminata da un chiarore d’alba”. Non a caso, Gesualdo, che si sente “allargare il cuore” , si concede qui una pausa di tono autobiografico ed elegiaco, in cui ricorda le fatiche e i travagli di un’esistenza consacrata a quel lavoro che l’ha fatto diventare un “don”, un borghese rispettato e rispettabile:
Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! [...] - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!... - Più colpi di funicella che pane!
Alle ansie di Gesualdo, riportate dell’indiretto libero (“Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiudere occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo!”), fa da contraltare l’intesa fugace con Diodata, cha ama sinceramente e in maniera devota il “mastro”. Eppure, anche in questi pochi istanti di abbandono sentimentale (“Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca”), Gesualdo non sa liberarsi dalla propria fissazione per il calcolo affaristico.
Gesualdo accenna a Diodata del proprio matrimonio combinato con Bianca e sottolinea di non aver “figliuoli” cui lasciare la sua "roba", quando invece proprio la donna che ha accanto gli ha dato due figli di cui egli non si cura affatto. E di fronte al dolore silenzioso e trattenuto di lei (“il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato”), il protagonista non sa fare altro che proporle un matrimonio con Nanni l’Orbo (“Sì, sì, bisogna maritarti!... Sei giovane, non puoi rimaner così... non ti lascerei senza un appoggio... Ti troverei un buon giovane, un galantuomo... Nanni l’Orbo, guarda! Ti darei la dote...”). La chiusura del capitolo mette allora in scena l’incomunicabilità che cade tra i due personaggi; al dolore di Diodata corrisponde la rabbia verbale di Gesualdo, simbolo della sua incapacità di sfuggire, anche per quanto riguarda la dimensione dell’intimità, alla logica del profitto:
- Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!... Su quel capo, adesso, sciocca!... sciocca che sei!...
Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato.
- Santo e santissimo! Sorte maledetta!... Sempre guai e piagnistei!...