Introduzione
Pubblicata dapprima sulla «Domenica letteraria» del 12 marzo 1882 e poi confluita nelle Novelle rusticane, Libertà è, al tempo stesso, novella che nasce da un fatto realmente avvenuto e racconto che dimostra come la narrazione breve verghiana si presti molto bene all’analisi dei fenomeni storico-sociali siciliani. Punto d’ispirazione e d’avvio sono i tragici fatti di Bronte, avvenuti tra il 2 e il 5 agosto del 1860, durante la Spedizione dei Mille, quando l’arrivo di Garibaldi e la promessa di un’equa spartizione delle terre demaniali per risolvere l’annoso problema del latifondo in mano ai “galantuomini” del paese avevano suscitato da subito illusioni di libertà e progresso.
Riassunto
Nel paesino siciliano di Bronte, alle pendici dell’Etna, lo scoppio della sommossa popolare costituisce l’incipit della vicenda ed è osservato, secondo la poetica del Verismo e con notevole abilità descrittiva, da un narratore corale, che rappresenta sulla pagina la feroce violenza indistinta contro tutto e tutti degli insorti:
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: “Viva la libertà!”.
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
“A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!” Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. “A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!” 1
Così, “il sangue che fumava ed ubbriacava” 2 travolge tutto e tutti, mescolando la scelta della narrazione "corale", le risorse dell’indiretto libero e le voci dei protagonisti, in scene che descrivono con forza la morte atroce di alcuni innocenti:
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto dalla folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: “Neddu! Neddu!”. Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. [...] Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni - e tremava come una foglia - un altro gridò: “Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!” 3.
Il “carnevale furibondo” del massacro termina all’arrivo delle forze garibaldine di Nino Bixio 4, che ristabilisce l’ordine ed istituisce un tribunale per giudicare gli insorti 5, che comminerà, in maniera assai arbitraria, cinque condanne a morte.
Commento critico
Il "coro" popolare verghiano (che è un'acquisizione tecnica fondamentale della poetica verghiana, come mostrano già i ragionamenti di Fantasticheria in Vita dei campi) non vuole né può approfondire le cause e le motivazioni latenti a ciò che è successo a Bronte, come l’appoggio delle forze inglesi alla repressione o la volontà “politica” dei garibaldini di stroncare le iniziative popolari per non inquietare la borghesia italiana nel momento dell’unificazione nazionale.
Piuttosto, l'ottica della regressione 6 pone l’accento su una tragedia sotterranea, legata al fatale fraintendimento del termine “libertà”, che dà il titolo alla novella, e da cui traspare anche la visione del mondo irrimediabilmente pessimistica del suo autore. Se tra gli insorti il vocabolo pare essere solo un motivo per soddisfare i propri egoismi 7, l’effetto più sarcasticamente drammatico è quello di chiusura, in quanto affidato alle parole, tanto sincere quanto inconsapevolmente tragiche, del "carbonaio" condannato:
Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. [...] Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...” 8
1 G. Verga, Libertà, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 2004, vol I, p. 319.
2 Ibidem.
3 Ivi, pp. 320-321.
4 Anche questo personaggio storico viene descritto secondo l’ottica popolare; ivi, p. 323: “il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente”.
5 Ivi, pp. 323-324: “Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato”.
6 Dobbiamo la calzante espressione ad uno studio critico di Guido Baldi, intitolato appunto L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista (Napoli, Liguori, 1980).
7 Ivi, pp. 322-323: “Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!”.
8 Ivi, p. 325.