Introduzione
Pubblicata inizialmente sulla «Rivista nuova di Scienze, Lettere e Arti» nel febbraio del 1880 e poi oggetto di una riduzione teatrale negli anni Novanta dell’Ottocento, La Lupa è una novella cruciale per comprendere come la tematica amorosa (presente pure in Cavalleria rusticana e che ricomparirà, in forme più umoristiche, anche in Guerra di Santi o Pentolaccia) sia l'altro polo d'interesse del Verga verista.
Riassunto e commento
Al centro della novella c’è infatti uno dei personaggi memorabili di Vita dei campi, la “Lupa” appunto; il narratore, riproducendo l’ottica della mentalità popolare, ci concede in apertura un suo icastico ritratto:
Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina 1.
Nella figura della “lupa” si fondono così la sensualità animalesca e conturbante (sottolineata dalla ripetizione delle “labbra rosse”), l’esclusione dalla cerchia chiusa della comunità di paese e addirittura il paragone diabolico (“con quegli occhi di satanasso”) e l’aggressività (“che vi mangiavano [...]”). La donna, quindi, rappresenta tutto ciò che è estraneo (e quindi, peccaminoso e malvagio) alla mentalità popolare, tanto da riecheggiare, nel proprio soprannome (peggiorativo come quello di Rosso Malpelo...) una suggestione dantesca 2.
La situazione si complica quando, sullo sfondo dell’assolata campagna siciliana del periodo della mietitura, la “gnà Pina” 3 si innamora di Nanni, un giovane contadino che invece vuol sposare Maricchia, figlia della protagonista. La Lupa, per realizzare il proprio progetto di seduzione, non esita a costringere Maricchia al matrimonio, così da vivere accanto all’oggetto del proprio desiderio. La “gnà Pina” diventa così un elemento fortemente disturbante all’interno della società, proprio perché trasgredisce alcuni tabù e alcune convenzioni ritenute immodificabili dalla mentalità arcaica che la circonda. Non a caso, è una frase modellata su un proverbio siciliano che la bolla agli occhi di tutti:
“In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona” 4.
Pina invece sfrutterà proprio le ore pomeridiane per sedurre Nanni che, convocato dalle forze dell’ordine a seguito della denuncia di sua moglie per giustificare il suo ripetuto adulterio, non potrà che confessare la propria disperazione di fronte alla Lupa e alla tentazione che lei rappresenta:
Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tento scolparsi. “È la tentazione!” diceva; “è la tentazione dell’inferno!” Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
“Per carità, signor brigadiere, levatemi da quest’inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder più, mai! mai!” 5
Al tormento di Nanni corrisponde la determinazione della Lupa, che è la vera forza agente del racconto e che, anche di fronte ai rappresentanti della legge, non rinuncia alla propria passione assoluta e totalizzante:
“No!” rispose però La Lupa al brigadiere. Io mi son riserbato un cantuccio delle cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia. Non voglio andarmene! 6
La vicenda non può che avere un esito tragico, come quello di altre novelle verghiane costruite attorno ad un problema erotico-sentimentale (come la già citata Cavalleria rusticana e in parte Jeli il pastore). Nanni riceve infatti un “calcio dal mulo” che lo porta vicino alla morte e acquieta momentaneamente la sua insostenibile passione; ma presto il legame tra il protagonista e la Lupa torna ad essere morbosamente ossessivo:
“Lasciatemi stare!” diceva alla Lupa “Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me…”
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi facevano perdere l’anima e il corpo. 7.
L’unica soluzione possibile, nella mente allucinata dell’uomo, non può che essere quella più estrema, come il finale de La Lupa, in una sorta di tragedia rurale, sintetizza in maniera emblematica:
“Ammazzatemi”, rispose la Lupa, “ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci”.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani, pieni di manipoli e di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. “Ah, malanno all’anima vostra!” balbettò Nanni 8.
Le metafore sessuali de La Lupa
Al di là dello spunto documentario (sembra che Verga si sia ispirato ad un fatto realmente accaduto), la novella mostra al meglio come la tecnica verista di Verga si presti non solo all’indagine dei motivi socio-economici alla base della società arcaica siciliana, ma anche alla rappresentazione delle pulsioni inconsce che attraversano l’animo umano e dei loro effetti spesso dirompenti. La caratterizzazione del personaggio principale investe allora molti livelli distinti.
Innanzitutto, c’è il soprannome della “gnà Pina”, che la accomuna al mondo animale e ad un animale pericoloso (e tradizionalmente ritenuto uno dei simboli del male) come il lupo. La donna viene esclusa dal contesto sociale perché simbolo del peccato carnale, e come tale ci ricorda il destino di altri esclusi o “vinti” verghiani, da Jeli a Rosso Malpelo, da Turiddu a Gramigna sino al giovane ‘Ntoni dei Malavoglia. Oltre che nei suoi tratti fisici, la carica sessuale della Lupa si traduce nella sua forza animalesca 9 e nell’ossessione della sua passione, che viene descritta come una forza bruciante ed insaziabile, spesso associata alla sensazione divorante della sete:
Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura 10.
[...] la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte 11.
Anche sotto questo aspetto, La Lupa è una figura assai originale: è infatti lei a rappresentare il polo attivo della coppia, mentre Nanni gioca un ruolo passivo e succube della femminilità di gnà Pina 12.
Al confronto con il mondo naturale si aggiunge l’utilizzo da parte del narratore di alcuni colori ricorrenti, che servono a caratterizzare la Lupa: in particolare, spicca il nero dei capelli di gnà Pina e il rosso, colore delle labbra della donna e simbolo della passione erotica. Lo si vede molto bene proprio nella scena finale, quando le tensione giunge al culmine e Nanni decide di uccidere la Lupa, che “seguità ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri”. Altra caratteristica della Lupa e della sua forza ferina, oltre al pallore che la fa sembrare “malata” 13, sono gli occhi “da satanasso” 14 che diventano uno strumento di dominio e di sopraffazione nei confronti di Nanni, quasi fossero dotato di un potere magico:
Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi 15.
La diversità della Lupa ha però due ragioni profonde che il narratore popolare di Verga - sulla cui attendibilità di giudizio occorre sempre dubitare, come nel caso di Malpelo - non rende del tutto esplicite. Da un lato, gnà Pina è del tutto estranea alla morale religiosa della comunità popolare, divenendo una sorta di incarnazione demoniaca 16, tanto che Nanni, per salvarsi da lei, ricorre addirittura ai conforti della fede e alla penitenza:
Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasiconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa [...]. 8
In secondo luogo, la Lupa, simbolo dell'eros e del tabù dell'incesto, è completamente aliena alla legge della “roba”, ed anzi non esita a trasgredirla e a violarla, sacrificando la figlia, la sua dote e anche i propri averi per avere ciò che desidera 18.
L’omicidio finale a colpi di scure rappresenta allora una sorta di rito di catarsi, con cui la comunità elimina dal proprio interno un elemento scomodo e perturbante.
1 G. Verga, La Lupa, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 2004, vol. I, p. 179.
2 La "lupa" del primo canto dell'Inferno, che “[...] di tutte brame | sembrava carca nella sua magrezza”, vv. 49-50.
3 Se Pina è il nome civile della “Lupa”, “gnà” è un termine derivato dallo spagnolo che significa “signora”, e che veniva utilizzato soprattutto per le donne del popolo.
4 G. Verga, La Lupa, p. 188; e cioè: “tra la nona ora e il vespero, nelle ore dedicate alla preghiera, nessuna donna morigerata esce di casa”.
5 Ivi, p. 189.
6 Ibidem.
7 Ivi, pp. 189-190.
8 Ivi, p. 190.
9 Ivi, p. 187: “Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni”.
10 Ivi, pp. 186-187.
11 Ivi, p. 188.
12 Non a caso, sottolineando ulteriormente la diversità della Lupa, il narratore dice che: “Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua amdre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo” (ivi, p. 188).
13 Ivi, p. 187.
14 Ivi, p. 186.
15 Ivi, p. 188. L’abitino, nelle culture popolari e contadine, è una sottile striscia di tessuto, di forma rettangolare, usata anche da alcuni ordini religiosi per portare sul petto o sulla schiena delle immagini votive della Madonna o dei santi, con la funzione di allontanare le tentazioni del peccato o il malocchio.
16 Ivi, p. 186: “Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi”.
17 Ivi, p. 190.
18 Ivi, pp. 186-187: “Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio. [...] Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le dò la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio”.