Introduzione
Secondo testo degli otto di Vita dei campi, Jeli il pastore (novella in parte edita da «La Fronda» il 29 febbraio 1880) è il primo testo pienamente narrativo della raccolta (Fantasticheria, che lo precede, ha in effetti una funzione teorica e proemiale), anche se era stato anticipato, per quanto riguarda la pubblicazione su rivista, da Rosso Malpelo, edito nel 1878.
Riassunto e commento
Jeli il pastore è testo emblematico della nuova maniera verghiana inaugurata da Vita dei campi e strettamente collegata alla poetica del verismo. La novella racconta infatti, sullo sfondo di una Sicilia agreste ed ancestrale, la vicenda di un umile guardiano di animali che vive in un rapporto esclusivo con il mondo naturale. È in questo microcosmo protetto ed illibato che Jeli bambino intesse un’amicizia con Don Alfonso, figlio dei signori del luogo, e con Mara, una ragazzina anch’essa di estrazione contadina. Le prime righe della novella sono filtrare dalla percezione dell’irrecuperabilità di questo mondo e di questa età della vita:
Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandria. [...] Il suo amico don Alfonsino, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e divideva con lui il suo pezzetto di cioccolata, e il pane d’orso del pastorello, e le frutta rubate al vicino 1.
Anche la voce del narratore, seguendo l’impostazione verista, si modella su quella dei suoi protagonisti e sulle loro risorse conoscitive, mescolando ai propri moduli espressivi quelli del protagonista Jeli, estasiato dal contatto con la Natura incontaminata:
Ah! le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! I bei giorni di aprile, quando il vento accavallava ad onde l’erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli; i bei meriggi d’estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie incendiassero! [...] il buon odore del fieno in cui s’affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh! iuh! che facevano pensare alle cose lontane [...] 2
Jeli è una figura tipica del mondo dei campi: come “un cane senza padrone” 3 a suo perfetto agio nel mondo rurale e in mezzo agli animali, egli si meraviglia quando “don Alfonsino”, l’amico nobile e benestante, gli spiega che lui sa leggere e scrivere 4. Al trascorrere degli anni, Jeli mantiene l’ingenuità infantile e si innamora di Mara, figlia di Massaro Agrippino, un guardiano di terreni. Il legame tra i due, che dura dall’infanzia, deve fare i conti con le difficoltà economiche delle rispettive famiglie: Jeli perde il padre, compare Menu, a causa della malaria, mentre la famiglia di Mara deve trasferirsi a Marineo (un paesino presso Palermo) perché è stata licenziata dal padrone delle loro terre.
Il passaggio dal mondo contadino a quello urbano modifica i rapporti tra Jeli e Mara; il primo conserva intatto il suo amore ingenuo per la ragazza, mentre la seconda si fidanza con un massaro locale seguendo la legge non scritta della “roba”, che sovrappone ai sentimenti la necessità di migliorare la propria condizione economica 5.
In occasione della festa di san Giovanni, Jeli non vede l’ora di reincontrare Mara, confidando ingenuamente di poter vedere corrisposti i propri sentimenti. L’occasione si rivela in realtà una atroce beffa: mentre egli sta conducendo una mandria di animali in paese per onorare un importante contratto, perde per un incidente lo “stellato”, un puledro “che valeva dodici onze come dodici angeli del paradiso!” 6 e che deve essere soppresso dopo essere precipitato in un burrone. Oltre alla vergogna del licenziamento, Jeli deve subire pure l’onta di partecipare alla festa con Mara e con il fidanzato di lei, massaro Neri 7.
Mentre Massaro Agrippino procura un nuovo lavoro a Jeli come guardiano di pecore, scoppia lo scandalo che impedisce il matrimonio programmato di Mara: la ragazza ha infatti una relazione con don Alfonso, cui “ripara” sposando Jeli, che l’accetta nonostante i pettegolezzi su di lei. La scena del matrimonio è ancora filtrata dall’ingenuo punto di vista del ragazzo:
Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto presto un giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella e fresca come una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l’agnello pasquale e quella collana d’ambra che le faceva il collo bianco [...]. Quando Mara disse sissignore, e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonna, e tutte le terre che aveva visto con gli occhi 8.
La tragedia però incombe: Jeli, nonostante le voci che circolano, non vuole credere al proseguimento della relazione tra la moglie e don Alfonso. Eppure, quando quest’ultimo invita Mara a ballare durante una festa paesana, Jeli reagisce obbedendo ad un suo atavico senso di giustizia e di vendetta (un tema, quello dell'amore tragico, che tornerà anche in altre novelle, come Cavalleria rusticana e La lupa):
Tutt’a un tratto come vide che don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d’oro sul panciotto, prese Mara per la mano per ballare, solo allora, come vide che la toccava, si slanciò su di lui, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto.
Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la menoma resistenza: “Come” diceva “non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara!...” 9
1 G. Verga, Jeli il pastore, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 2004, vol I, p. 129.
2 Ivi, pp. 129-130.
3 Ivi, p. 132.
4 Ivi, p. 134: “Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nelle bestie che più si accostano all'uomo. [...] Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiata sospettosa”.
5 Ivi, p. 141: “Mara, come se ne fu andata a Marineo, in mezzo alla gente nuova, e alle faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue bestie. [...] In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era fatta sposa, giacché dell'acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello”. "Farsi sposa" è un'espressione siciliana per "fidanzarsi".
6 Ivi, p. 145.
7 Ivi, p. 150: "Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le disgrazie che gli erano uscite di mente, e che era rimasto senza padrone, e non sapeva più che fare, né dove andare, e non aveva più né pane né tetto, che potevano mangiarselo i cani al pari dello stellato il quale era rimasto in fondo al burrone, scuoiato sino agli zoccoli".
8 Ivi, p. 155-156.
9 Ivi, pp. 160-161.