Nella premessa alla novella L’amante di Gramigna (1880), Verga dichiara il proprio intento di sviluppare la narrazione "colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare", col solo obiettivo di raccontare il "fatto nudo e schietto". E al critico Francesco Torraca scrive l’anno seguente: "Vorrei quasi che un romanzo arrivasse a non portare il nome del suo autore, si affermasse da sé, come vivente per un organismo proprio e necessario, producesse quell’illusione potente dell’essere stato, che hanno le epopee dei rapsodi e tutte le figure schiette della poesia popolare".
Rispetto alla tradizione realista – cui per la verità sono già improntati i romanzi del periodo “mondano”, che seguono personaggi “d’eccezione” in un tentativo di penetrazione psicologica che fa pensare al grande modello di Flaubert – come si vede la “svolta” è rappresentata appunto dall’adesione a una pronunciata impersonalità narrativa, dalla quale si vorrebbe rigorosamente bandito ogni intervento dell’autore, sotto forma di commento o semplicemente di analisi. Era stato lo scrittore francese Émile Zola, coetaneo di Verga e a sua volta appassionato di fotografia (come saranno pure Capuana e De Roberto), ad aver praticato, sin da Thérèse Raquin (1867), e poi teorizzato col saggio Le roman expérimental (1880), il metodo narrativo naturalista, che aveva per fine la rappresentazione il più possibile oggettiva di ambienti sociali disparati, con ambizione deterministiche e quasi scientifiche (non senza un’intenzione politica di denuncia, con forti connotati progressisti e anche socialisti, che portò Zola anche a rumorosissime polemiche pubbliche come quella degli anni Novanta sull’affaire Dreyfus). Le origini di questo metodo venivano indicate dai naturalisti (a Zola si affiancarono presto, con altrettanto successo, Guy de Maupassant e i fratelli Edmond e Jules de Goncourt) nella Comedie humaine di Balzac, ma da un punto di vista “tecnico” il riferimento più importante resta Flaubert: per essere stato il primo teorico dell’impersonalità ("L’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai") ma soprattutto per aver perfezionato il principale strumento stilistico che accomunerà il naturalismo francese al verismo italiano e cioè il cosiddetto discorso indiretto libero, in sostanza un discorso indiretto introdotto senza il verbo reggente (come "disse che", "pensò che", ecc.), col quale frasi e opinioni dei personaggi sono per così dire “attratte” nella diegesi del narratore, il quale in tal modo può far ruotare più voci e punti di vista.
Se rispetto al modello zoliano Verga mostra un’attrazione particolare per l’ambiente rurale e il suo universo di valori, è anche vero che egli evita accuratamente di riprendere i moduli linguistici e stilistici della narrazione popolare tanto ammirata (i quali non sono invece assenti dai romanzi di Zola), trasponendone però la sfera valoriale e l’andamento epico e leggendario all’interno della lingua italiana corrente. Diverse sono poi, nei suoi vari testi, le scelte strutturali ed espressive: al disegno acre e impietoso di personaggi icastici e memorabili (come i protagonisti delle novelle di Vita dei campi o del romanzo Mastro don Gesualdo) alterna un respiro più “corale” (come nei Malavoglia o nelle Novelle rusticane) che non a caso evocherà al regista Luchino Visconti de La terra trema del 1948 (che fa però una scelta linguistica opposta a quella verghiana, e cioè lasciare interamente la voce dei personaggi a un dialetto arcaico e incomprensibile), un andamento consapevolmente epico e addirittura melodrammatico.
Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa - Tuttolibri.