Il romanzo Storia di una capinera, pubblicato prima a puntate in rivista, poi in volume nel 1871, è una tappa assai significativa del percorso narrativo di Giovanni Verga. La trama, probabilmente ispirata ad un fatto vero, racconta le vicende della giovanissima Maria, adolescente siciliana orfana di madre, che il padre, succube della nuova moglie, ha destinato ad una vita di clausura in un convento catanese.
Se il tema della monacazione forzata, all’epoca assai diffusa, sembrerebbe sviluppare inizialmente un’analisi della società e dei moventi economici dietro alla vicenda narrata (e cioè, la volontà della matrigna di preservare la dote dell’altra figlia, costringendo Maria a prendere i voti), Verga invece focalizza la sua attenzione sulla figura femminile principale e sulle sue molteplici reazioni intime. Infatti, quando un’epidemia di colera (siamo all’incirca a metà degli anni Cinquanta del secolo XIX) costringe Maria a soggiornare provvisoriamente presso la famiglia, in campagna, alla scoperta appassionata della bellezza del mondo naturale segue un evento ben più rilevante: l’incontro con Nino, un vicino di casa di cui l’ingenua ragazza s’innamora immediatamente. Il narratore indaga allora in profondità le reazioni psicologiche della giovane, combattuta tra la sua devozione naturale e sincera a Dio e l’altrettanto spontanea e incontenibile passione per Nino; strumento di quest’esame minuzioso è la forma epistolare dell’opera, che si compone delle lettere tramite cui la protagonista confessa i propri turbamenti ad un’altra educanda, Marianna. In particolare, lo strumento della missiva serve a far emergere in primo piano la personalità scissa e tormentata della giovane, esaltando le componenti di pathos melodrammatico della vicenda, che ampio successo avevano presso il pubblico dell’epoca. Al divieto da parte della matrigna di frequentare ancora Nino, seguono la malattia di Maria e, soprattutto, il rientro a Catania e alla vita conventuale. Qui le sofferenze della protagonista assumono tinte ben peggiori, esacerbate da una notizia che altera definitivamente il suo già fragile equilibrio psichico: giunge la notizia che Nino si sposerà con la sorellastra Giuditta. La cerimonia di monacazione non è che il passo conclusivo della discesa di Maria nella follia, sempre raccontata dal suo punto di vista interno; l’esplosione dell'ossessione maniacale della protagonista (che dal “belvedere” del convento può, per una perfida ironia della sorte, contemplare la casa dei due sposi) la conduce ad un estremo tentativo di fuga e alla reclusione nella “cella dei matti” del convento, dove di lì a poco la giovane morirà.
Elaborato durante il soggiorno fiorentino (dove Verga trascorre alcuni mesi nel 1865, e un periodo più lungo dal 1869 al 1871), Storia di una capinera è un chiaro tentativo, da parte di un narratore in via di formazione ed ancora lontano dal rigore metodologico e stilistico dei romanzi maggiori (I Malavoglia e Mastro don Gesualdo dovranno infatti ancora aspettare la maturazione del Verga “verista”) di conquistarsi i favori del pubblico borghese dell’epoca: la “capinera” (una sorta di passero, simbolo trasparente della debolezza dell’indifesa protagonista di fronte alle ingiustizie del mondo) diventa allora la chiave di lettura attraverso cui leggere e sintetizzare al meglio la triste vicenda di Maria, e al tempo stesso un esplicito appello d'intesa alle lettrici borghesi, da subito identificate come destinatarie privilegiate di queste narrazioni sentimental-patetiche sul "mistero" del cuore umano.