È bene chiarire innanzitutto quali sono i rapporti di filiazione e le differenze che si stabiliscono fra Naturalismo e Verismo. Com’è risaputo, il Naturalismo, teorizzato inizialmente dal critico Hippolyte Taine in un suo articolo su «Journal des débats» del 1858, nasce in Francia nella suggestione della corrente filosofica del Positivismo e dell’opera del fisiologo Claude Bernard, Introduction à l’étude de la médicine expérimentale (1865). Le premesse teoriche del “metodo” naturalista - quali per esempio il tema dell’ereditarietà così centrale nel ciclo dei Rougon-Macquart di Zola, venti romanzi pubblicati tra il 1871 e il 1893, che saranno di stimolo per la Prefazione ai Malavoglia verghiani - provengono da questo sostrato di determinismo scientista. I naturalisti promuovono dunque un modello di romanzo che, ponendosi al pari (e in diretta concorrenza) della Scienza, sappia analizzare i mutamenti della società francese del Secondo Impero con obiettività fotografica, con “occhio clinico di scienziato”, in modo da restituire la realtà con un atteggiamento di studio distaccato, come farebbe “un medico che percorre le sale di uno spedale in mezzo a’ suoi ammalati, e niente gli sfugge” 1. Questo “metodo sperimentale” si attua in forma narrativa attraverso un rigido canone dell’impersonalità tale per cui il narratore deve rimanere nascosto e non far sentire la sua presenza all’interno della vicenda narrata. In tal senso - con la Comédie Humaine di Honoré de Balzac (1799-1850) e soprattutto con l’opera di Gustave Flaubert 2 (1821-1880) ed Émile Zola (1840-1902) e senza dimenticare Guy de Maupassant o i fratelli Goncourt - il Naturalismo francese supera modi e temi della letteratura romantica e tardo-romantica, ponendo sotto la lente della propria indagine gli ambienti della piccola borghesia, del proletariato e del sottoproletariato urbano, colti molto spesso negli aspetti più degradanti e con schietto realismo, e attraverso meccanismi narrativi di tipo mimetico restituisce anche il linguaggio degli individui.
Il verismo italiano è invece elaborato alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento come assimilazione del Naturalismo francese. Accanto alle analogie di fondo che accomunano le due correnti, le quali si configurano al tempo come le evoluzioni più radicali del realismo ottocentesco, occorre però registrare le notevoli differenze che fanno del Verismo una corrente letteraria originale e per questo motivo importante nel contesto europeo. Principale fonte teorica del Verismo italiano - oltre al Verga di Fantasticheria, de L’amante di Gramigna o della citata Prefazione ai Malavoglia - è allora Luigi Capuana (1839-1915), scrittore ed intellettuale catanese che, sulla scorta di letture di Hegel (da cui mutua il concetto della funzione dell’arte nella Storia), De Sanctis e del filosofo Camillo De Meis, approda ad alcune fondamentali formulazioni per “importare” i precetti del Naturalismo su suolo italiano. La parentela stretta che Capuana, lettore appassionato di Zola, istituisce tra forme artistiche e forme naturali e la superiorità dell’arte rispetto alla fotografia (e sono affermazioni che si trovano nella recensione di Capuana a Vita dei campi) trovano forma completa in Per l’arte del 1895, in cui ricorrono le tematiche della riflessione dello scrittore (l’importanza del genere "romanzo", la scientificità del lavoro dello scrittore, il rilievo delle leggi deterministiche dell’ereditarietà, l’immaginazione artistica che dà vita ai “documenti umani”, il primato assegnato alla “forma”). E ai presupposti teorici fa seguito per Capuana la produzione artistica, di livello sicuramente inferiore ai grandi capolavori verghiani ma interessante per osservare il legame e la compenetrazione tra riflessione metodologica e scrittura personale: da Giacinta (1879), romanzo dedicato a Émile Zola sul “caso clinico” (desunto dalla cronaca vera) di una giovane che non riesce a superare il trauma e il senso di colpa per una violenza infantile, Profumo (1890), sul complesso edipico di un giovane “inetto” (che quasi preannuncia quelli di Svevo), e Il marchese di Roccaverdina (1901), sullo scoppio della pazzia di un nobile, roso dal senso di colpa per un suo delitto impunito (trama che riporta alla memoria il Delitto e castigo dostoevskijano).
Altra voce da tenere in considerazione è quella di Federico De Roberto (1861-1927), la cui ricca produzione narrativa, sulle orme dei “maestri” Verga e Capuana, si sviluppa tra racconti e novelle (Documenti umani, 1888; Processi verbali, 1890) e romanzi (Ermanno Raeli, 1889; L’illusione, 1891; l’incompiuto L’imperio, edito postumo solo nel 1929), fino al suo capolavoro, I Viceré (1894), cupo e grottesco affresco storico della Sicilia nei decenni del Risorgimento, vista attraverso le vicende della famiglia nobiliare degli Uzeda. Anche De Roberto unisce all’invenzione narrativa gli interessi di critico letterario e di teorico del movimento (come dimostrano i saggi di Arabeschi, pubblicati nel 1883), mettendo in dubbio il canone dell’impersonalità o il presupposto dell’obiettività del reale, o portando alle estreme conseguenze alcuni precetti di base del verismo, così che si avrebbe “rappresentazione obiettiva” - per De Roberto - solo nel “puro dialogo”, come insegna il teatro (e si ricordi che anche Verga opta, nello sviluppo della sua carriera, per la scrittura teatrale). In molte prefazioni ai suoi testi, De Roberto torna spesso sul problema della “forma” (ribadendo come Capuana e sulla linea di De Sanctis il suo primato sul metodo), e sulle risorse dell’analisi psicologica per indagare classi sociali (come quella alto-borghese o nobiliare) del tutto antitetiche rispetto all’universo rurale e contadino verghiano.
Il variegato panorama del Verismo italiano, che conosce le sue maggiori fortune e le sue opere emblematiche nei due decenni conclusivi del secolo XIX, sarebbe del resto incompleto senza il precedente storico del movimento milanese della Scapigliatura, con cui le “tre corone” del Verismo intrattengono spesso stretti rapporti, soprattutto nell’ottica comune di uno svecchiamento della tradizione nazionale. La battaglia degli scapigliati (tra gli altri: Arrigo e Camillo Boito, Luigi Gualdo, Cletto Arrighi, Carlo Dossi, Iginio Ugo Tarchetti, Vittorio Imbriani) contro l’ipocrisia e il moralismo borghese e contro un’idea di letteratura rimasta ferma al realismo romantico di Manzoni, aggravata da una “rettorica” sentita come stantia e melensa, stimola in Verga la tensione verso “l’immediatezza” della rappresentazione. Con il loro antagonismo, infatti, gli scapigliati hanno un ruolo cruciale anche nel rinnovamento della novella, e la forma breve è una tappa fondamentale proprio in Verga, che da Milano inizia a tracciare i bozzetti di alcune scene di vita paesane della sua Sicilia. D’altra parte gli scapigliati, “romantici in ira” 3, nel loro maledettismo e nella disillusione post-risorgimentale veicolano già istanze opposte a quelle positivistiche che invece vanno diffondendosi. In Verga, più radicalmente, la ricerca di una “letteratura della verità” si traduce quindi per altre vie nel peculiare pessimismo del ciclo dei “vinti”, che porta alle estreme conseguenze la riflessione sulla darwiniana legge del più forte: “sotto questo aspetto l’adesione al verismo significò anche l’abbandono dell’atteggiamento esplicitamente polemico degli scapigliati, il quale in fondo nasceva ancora dall’illusione romantica d’incidere in qualche modo sulla società” 4.
Bibliografia essenziale:
- Storia della letteratura italiana, Roma, Salerno Editrice, 1999.
- R. Luperini, Verga, in Letteratura italiana Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1975.
- G. Rosa, La narrativa degli Scapigliati, Roma-Bari, Laterza, 1997.
- G. Verga, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 2004.
1 E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880.
2 Per cui, secondo la celebre definizione, “l’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione: invisibile e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma che non lo si veda mai".
3 Così si autodefinisce Arrigo Boito inviando la sua Ballatella a Cletto Arrighi nel gennaio del 1865.
4 R. Luperini, Verga, in Letteratura italiana Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1975.