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Inferno: Riassunto del IV Canto

Siamo nel Limbo, primo vero cerchio dell'Inferno. Appena arrivati, Virgilio impallidisce, turbato psicologicamente e non per timore, come crede, in un primo tempo, Dante, svegliatosi a causa di un forte tuono. Qui ci sono le anime che non hanno ricevuto il battesimo, non hanno creduto in Cristo venturo ma non hanno commesso colpe: bambini, donne, uomini, personaggi illustri. La presenza di questi ultimi fa esitare Dante, il quale appare pre-umanista, in quanto valorizza la cultura dei classici e pensa che costoro meriterebbero la grazia di Dio. Resta comunque figlio del suo tempo, poichè, avvertendo il conflitto tra ragione e fede, accetta il mistero imperscrutabile di Dio. Sempre perplesso, il poeta chiede a Virgilio se mai qualcuno dal Limbo sia asceso al paradiso e scopre che i grandi patriarchi, quali Adamo, Abele, Mosè, Noè, risiedono nell'Empireo (più precisamente nella candida rosa), poichè credenti in Cristo Venturo. Successivamente, Dante nota la presenza di una luce che forma un emisfero: Virgilio gli spiega che lì stanno coloro che godettero di molta fama. Tra gli spiriti del Limbo si staccano poi quattro personaggi per accogliere Virgilio, sono: Omero, con una spada in mano simbolo della poesia epica, Ovidio, Orazio e Lucano. I cinque conversano, quando poi viene coinvolto anche Dante, che viene considerato alla pari dei poeti antichi. I sei poeti camminano insieme e giungono dinanzi a un castello (simbolo della filosofia), in cui risiedono gli spiriti magni, circondato da sette mura (simbolo delle parti della filosofia) e da un corso d'acqua, che, una volta attraversato, conduce in un vasto prato verde dove Virgilio mostra a Dante illustri personaggi quali: Ettore, Enea, Saladino, Aristotele, Socrate, Platone e anche Averroè e Avicenna di religione musulmana.

Ecco qui il IV Canto

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
       e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.
       Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
       Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
       «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
       E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
       Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
       Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.
       Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri,
che l’aura etterna facevan tremare;
       ciò avvenia di duol sanza martìri
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
       Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
       ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
       e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
       Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio».
       Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
       «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
       «uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
       rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
       Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moisè legista e ubidente;
       Abraàm patriarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé;
       e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
       Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
       Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
       Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.
       «O tu ch’onori scienzia e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
       E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che sì li avanza».
       Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta:
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
       Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
       Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
       quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
       Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
       Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
       Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
       e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
       Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’era ’l parlar colà dov’era.
       Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
       Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
       Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
       Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti. 
       Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
       I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
       Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte, vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
       Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
       Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
       Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’io Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
       Democrito, che ’l mondo a caso pone,
Diogenés, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
       e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
       Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galieno,
Averoìs, che ’l gran comento feo.
       Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
       La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.
       E vegno in parte ove non è che luca.