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"Inferno", Canto 33: riassunto e commento

Parafrasi Commento

Introduzione

 

In apertura del canto XXXIII dell’Inferno, Dante si trova nella ghiaccia del Cocito, nel nono cerchio, dove sono puniti i traditori della patria e degli ospiti. Già nella conclusione del canto precedente, egli aveva scorto due dannati immersi in parte nel ghiaccio, uno dei quali addentava la nuca dell’altro. Sono il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggieri di Pisa.

 

Riassunto

 

Il nuovo canto inizia con le parole del conte che rivela al poeta la sua identità e dell’altro dannato e la loro storia: “La bocca sollevò dal fiero pasto | quel peccator, forbendola a' capelli | del capo ch'elli avea di retro guasto. | Poi cominciò: «Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, | e questi è l’arcivescovo Ruggieri: | or ti dirò perché i’ son tal vicino». ” (vv. 1-15). Questi personaggi sono due figure storiche, legati alle vicende politiche di Pisa: il conte di origine ghibellina, era alleato con i guelfi per interessi economici e di difesa dei suoi territori - ed è qui probabilmente che bisogna rintracciare il suo tradimento; suo avversario era l’arcivescovo, intorno al quale si era radunati gli altri nemici di Ugolino. In seguito a una rivolta popolare, nel 1288, il conte viene catturato e chiuso nella Torre della Muda con i suoi figli e nipoti. Secondo la versione di Dante l’arcivescovo aveva tradito Ugolino, attirandolo con la promessa di un accordo e facendolo invece imprigionare. La storia precedente la prigionia non viene raccontata da Dante, dal momento che si tratta di una vicenda nota ai lettori dell’epoca. Il racconto, quindi, si concentra sulla lunga e atroce morte del conte e dei figli nella torre: “quel che non puoi avere inteso, | cioè come la morte mia fu cruda, | udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso” (vv. 19-21).

La vicenda narrata dal conte (vv. 28-36) inizia con un sogno dello stesso in cui compare l’Arcivescovo Ruggieri intento in una caccia al lupo. L’animale, insieme ai suoi cuccioli, è inseguito e attaccato dalla muta di cani dell'ecclesiastico, ed è simbolo del conte stesso, tradito e catturato insieme ai figli. Ugolino, una volta risvegliatosi, sente i figli piangere per la fame. Ai vv. 40-42 avviene la prima interruzione del racconto, atta ad alzare la tensione nel lettore; il conte si stupisce con rabbia di come Dante non sembri essere commosso dal racconto: “Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli | pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; | e se non piangi, di che pianger suoli?”. Nei versi successivi il conte riprende la narrazione: sente che la porta della torre viene inchiodata, imprigionandoli dentro definitivamente. Ugolino, per nascondere il dolore ai figli in modo da evitar loro ulteriori sofferenze, non risponde alle loro domande e richieste per un giorno intero e una notte. Guardando poi il loro volto emanciato, riconosce il suo aspetto e in un momento di furore si morde le mani, atto che simbolizza la sua perdita d’umanità già in vita (vv. 56-58). I figli interpretano il silenzio del padre come segno della sua fame e offrono di farsi mangiare: “tu ne vestisti | queste misere carni, e tu le spoglia” (vv. 62-63). Il conte, come risvegliatosi dal torpore indotto dal dolore, consola i figli. Ma nei giorni successivi è costretto ad assistere alla morte di ognuno di loro in un susseguirsi straziante di sofferenze, che culmina con la morte del conte. Concluso il drammatico racconto, da cui emerge l’umana figura di Ugolino, testimone impotente della scomparsa dei figli, Dante poeta ritorna alla situazione iniziale: il dannato, che ha ormai perso la sua umanità, furioso e pieno di rabbia nei confronti del suo traditore: “Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti | riprese ‘l teschio misero co’ denti, | che furo a l’osso, come d’un can, forti” (vv. 76-78).

Nei versi successivi (79-90) Dante rivolge un’invettiva contro Pisa, “vituperio de le genti”, paragonata a una “novella Tebe”, città greca nota per la guerra fratricida tra Eteocle e Polinice. Il poeta invoca la distruzione della città, sdegnato dalle lotte tra fazioni. Dante e Virgilio giungono nella Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, tra cui, celebri all’epoca per l’efferatezza dei loro delitti, frate Alberigo, uno dei capi guelfi di Faenza, che aveva fatto assassinare alcuni parenti, e Branca Doria, genovese e ghibellino, uccisore del suocero, Michele Zanche, già incontrato nel canto XXII, tra i barattieri. Proprio per questo nei versi finali (vv. 151-157) Dante rivolge una nuova invettiva contro i genovesi per la loro malvagità e nuovamente si augura la loro fine.

 

Tematiche e sistema dei personaggi

 

Ugolino della Gherardesca: la punizione divina e le “rime aspre e chiocce”

 

Nel momento in cui ricostruisce la drammatica vicenda di Ugolino e dei suoi figli, Dante consegna al lettore una pagina memorabile del suo poema, che però non si può comprendere del tutto se non si considera la struttura morale su cui si regge l’Inferno (e anche tutta la Commedia) e lo stile di questo specifico canto.

 

Dal punto di vista della geografia delle colpe, siamo ad uno dei punti più bassi cui può giungere, per Dante, l’animo umano: peggio del tradimento della patria, che si sconta qui nell’Antenora, c’è solo l’inganno degli ospiti (Tolomea) e dei benefattori (Giudecca). La struttura dell’Inferno si basa allora sia sui precetti della teologia medievale sia su alcune convinzioni del poeta; tuttavia le parole di Ugolino, la pena a cui è condannato, la morte da “innocenti” dei suoi “figliuoi” (vv. 87-88) non vogliono solo porre in rilievo la condotta scellerata di Ugolino e di Ruggieri, ma ampliare significativamente il discorso. Dante, che ha quasi concluso il suo viaggio attraverso le perversioni umane, fa del caso di Ugolino una riflessione universale sul potere e sulle conseguenze che esso può avere. Il tema - che ha attraversato buona parte della cantica, da Ciacco a Farinata a Pier delle Vigne - tocca qui i suoi aspetti più radicali ed estremi: la lotta per il potere (di cui in vita Ugolino è stato un campione) può giustificare una pena orrenda come la morte per fame e il terribile contrappasso del cannibalismo nel lago ghiacciato del Cocito? Per Dante, l’estremizzazione dei conflitti umani rischia di spogliare i protagonisti della contesa della loro stessa umanità, rendendoli in tutto e per tutto simili a bestie 1.

E a queste estremizzazione del contenuto (in accordo con le regole medievali della tripartizione degli stili) corrisponde una estremizzazione della forma: le “rime aspre e chiocce” che Dante ha richiesto alle Muse nel canto precendente 2 al momento dell’ingresso nella Caina (la prima regione del nono cerchio) rappresentano appunto quel tipo di poesia - fortemente espressionistica come nella stagione delle rime petrose e della canzone Così nel mio parlar voglio essere aspro - che sa adeguarsi ad una materia così bassa e disgustosa quale quella del tradimento di altri uomini per assecondare la propria sete di ricchezza e potere 3. Per un rapido esempio, si veda la terzina che chiude l’episodio di Ugolino (vv. 76-78):

 

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.

 


Le parole in rima (“morti - torti - forti”) sottolineano con i suoni duri della - t - e della - r - l’asprezza di queste immagini, mentre la disposizione degli accenti (in particolar modo al v. 78, con un accento molto rilevato sul monosillabo "can") cercano di riprodurre l'atto con cui Ugolino, ormai del tutto disumanizzato, può tornare, come un cane, a rodere il cranio di Ruggieri.

1 Si spiega anche così il rifiuto di Dante di alleviare le sofferenze di frate Alberigo, pulendogli il viso delle lacrime ghiacciate (vv. 148-150).

2 Inferno, XXXII, vv. 1-3: “S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, | come si converrebbe al tristo buco | sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,”.

3 La riflessione sul rapporto tra lingua e contenuto è presente anche nel De vulgari eloquentia: in un passo del secondo libro, il poeta esclude che uno stile del genere possa adattarsi ad argomenti alti ed elevati.