Giunto praticamente alla fine del suo viaggio, Dante è nelle più remote profondità infernali, dove giacciono i peccatori più abietti o quelli che più hanno trasgredito la legge divina. Dopo averlo intravisto a fine del canto XXXII, il poeta ora si sofferma con Ugolino, che racconta la sua drammatica fine per mano dell'arcivescovo Ruggieri, di cui sta rosicando il capo. Dalla zona dell'Antenora, dove sono confinati i traditori della Patria, Dante e Virgilio passano alla Tolomea, dove frate Alberigo e Branca Doria sono i simboli del tradimento perpetrato contro gli ospiti.
- La bocca sollevò dal fiero pasto 1
- quel peccator, forbendola a' capelli
- del capo ch'elli avea di retro guasto 2.
- Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
- disperato dolor che ’l cor mi preme
- già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
- Ma se le mie parole esser dien seme
- che frutti infamia al traditor 3 ch’i’ rodo,
- parlare e lagrimar vedrai insieme 4.
- Io non so chi tu se’ né per che modo
- venuto se’ qua giù; ma fiorentino
- mi sembri veramente quand’io t’odo 5.
- Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
- e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
- or ti dirò perché i son tal vicino.
- Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
- fidandomi di lui 6, io fossi preso
- e poscia morto, dir non è mestieri;
- però quel che non puoi avere inteso,
- cioè come la morte mia fu cruda,
- udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso 7.
- Breve pertugio dentro da la Muda 8,
- la qual per me ha ’l titol de la fame,
- e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
- m’avea mostrato per lo suo forame
- più lune 9 già, quand’io feci ’l mal sonno 10
- che del futuro mi squarciò ’l velame.
- Questi pareva a me maestro e donno 11,
- cacciando il lupo e ’ lupicini al monte 12
- per che i Pisan veder Lucca non ponno.
- Con cagne magre, studïose e conte
- Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
- s’avea messi dinanzi da la fronte.
- In picciol corso mi parieno stanchi
- lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
- mi parea lor veder fender li fianchi.
- Quando fui desto innanzi la dimane,
- pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
- ch’eran con meco, e dimandar del pane.
- Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
- pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
- e se non piangi, di che pianger suoli?
- Già eran desti, e l’ora s’appressava
- che ’l cibo ne solëa essere addotto,
- e per suo sogno ciascun dubitava 13;
- e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
- a l’orribile torre; ond’io guardai
- nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
- Io non piangëa, sì dentro impetrai:
- piangevan elli; e Anselmuccio mio
- disse: 'Tu guardi sì, padre! che hai?'.
- Perciò non lagrimai né rispuos’io
- tutto quel giorno né la notte appresso,
- infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
- Come un poco di raggio si fu messo
- nel doloroso carcere, e io scorsi
- per quattro visi il mio aspetto stesso,
- ambo le man per lo dolor mi morsi;
- ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
- di manicar, di sùbito levorsi
- e disser: 'Padre, assai ci fia men doglia
- se tu mangi di noi: tu ne vestisti
- queste misere carni, e tu le spoglia’.
- Queta’mi allor per non farli più tristi;
- lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
- ahi dura terra, perché non t’apristi?
- Poscia che fummo al quarto dì venuti 14,
- Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
- dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’.
- Quivi morì; e come tu mi vedi,
- vid’io cascar li tre ad uno ad uno
- tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
- già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
- e due dì li chiamai, poi che fur morti.
- Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno".
- Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
- riprese ’l teschio misero co’ denti,
- che furo a l’osso, come d’un can, forti.
- Ahi Pisa 15, vituperio de le genti
- del bel paese là dove 'l sì suona,
- poi che i vicini a te punir son lenti,
- muovasi la Capraia e la Gorgona 16,
- e faccian siepe ad Arno in su la foce,
- sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
- Che se ’l conte Ugolino aveva voce
- d’aver tradita te de le castella 17,
- non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
- Innocenti facea l’età novella,
- novella Tebe 18, Uguiccione e ’l Brigata
- e li altri due che ’l canto suso appella.
- Noi passammo oltre 19, là ’ve la gelata 20
- ruvidamente un’altra gente fascia,
- non volta in giù, ma tutta riversata.
- Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
- e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
- si volge in entro a far crescer l’ambascia;
- ché le lagrime prime fanno groppo,
- e sì come visiere di cristallo,
- rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
- E avvegna che, sì come d’un callo 21,
- per la freddura ciascun sentimento
- cessato avesse del mio viso stallo,
- già mi parea sentire alquanto vento;
- per ch’io: "Maestro mio, questo chi move?
- non è qua giù ogne vapore spento?".
- Ond’elli a me: "Avaccio sarai dove
- di ciò ti farà l’occhio la risposta,
- veggendo la cagion che ’l fiato piove".
- E un de’ tristi de la fredda crosta 22
- gridò a noi: "O anime crudeli
- tanto che data v’è l’ultima posta,
- levatemi dal viso i duri veli,
- sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
- un poco, pria che ’l pianto si raggeli".
- Per ch’io a lui: "Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
- dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
- al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".
- Rispuose adunque: "I’ son frate Alberigo 23;
- i’ son quel da le frutta del mal orto 24,
- che qui riprendo dattero per figo 25".
- "Oh", diss’io lui, "or se’ tu ancor morto?".
- Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea
- nel mondo sù, nulla scïenza porto.
- Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
- che spesse volte l’anima ci cade
- innanzi ch’Atropòs 26 mossa le dea.
- E perché tu più volontier mi rade
- le ’nvetrïate lagrime dal volto,
- sappie che, tosto che l’anima trade
- come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
- da un demonio, che poscia il governa
- mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
- Ella ruina in sì fatta cisterna;
- e forse pare ancor lo corpo suso
- de l’ombra che di qua dietro mi verna.
- Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
- elli è ser Branca Doria 27, e son più anni
- poscia passati ch’el fu sì racchiuso".
- "Io credo", diss’io lui, "che tu m’inganni;
- ché Branca Doria non morì unquanche,
- e mangia e bee e dorme e veste panni".
- "Nel fosso sù", diss’el, "de’ Malebranche,
- là dove bolle la tenace pece,
- non era ancora giunto Michel Zanche,
- che questi lasciò il diavolo in sua vece
- nel corpo suo, ed un suo prossimano
- che ’l tradimento insieme con lui fece.
- Ma distendi oggimai in qua la mano;
- aprimi li occhi". E io non gliel’apersi;
- e cortesia fu lui esser villano.
- Ahi Genovesi 28, uomini diversi
- d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
- perché non siete voi del mondo spersi?
- Ché col peggiore spirto di Romagna 29
- trovai di voi un tal, che per sua opra
- in anima in Cocito già si bagna,
- e in corpo par vivo ancor di sopra.
- Ugolino sollevò la bocca dal suo pasto
- crudele, pulendola dai capelli del capo
- che egli aveva poco prima masticato.
- E poi disse: “Tu vuoi che io ricordi
- il dolore folle che mi opprime il cuore
- già solo al ricordarlo, prima che ne parli.
- Ma se le mie parole devono essere motivo
- di infamia e di vergogna per Ruggieri,
- mi vedrai parlare e piangere insieme.
- Io non ti conosco e non so il motivo per cui
- tu ti trovi in questo luogo; ma, a sentirti
- parlare, mi pari senza dubbio fiorentino.
- Tu devi sapere che io fui il Conte Ugolino,
- e questi è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti dirò
- per quale motivo mi trovo tanto vicino a lui.
- Non è necessario ripetere ancora il motivo
- per il quale io, fidandomi di lui, a causa delle sue
- cattive azioni fui rinchiuso ed ucciso;
- però quello che non puoi sicuramente sapere
- è come fu crudele la mia morte, e così potrai
- valutare se mi ha recato danno o no.
- La piccola finestra della torre dei Gualandi,
- la quale dopo me si chiama torre della Fame,
- e che è meglio che venga chiusa per gli altri,
- mi aveva indicato lo scorrere del tempo
- dalle sue volte, quando io ebbi un sogno
- premonitore, che mi predisse il futuro.
- Ruggieri mi sembrava il capo della battuta di
- caccia, e inseguiva me ed i miei nipoti verso
- il monte, che divide Pisa da Lucca.
- Ruggieri si era messo a capo dei Gualandi,
- dei Sismondi e dei Lanfranchi, dotati di cagne
- fameliche, accorte ed addestrate.
- Dopo breve fuga il padre ed i figli mi parvero stanchi,
- e mi sembrava che con i denti aguzzi
- [le cagne] stessero già per morder loro i fianchi.
- Quando prima dell’alba mi svegliai,
- sentii piangere nel sonno i miei figli
- che stavano con me, e domandare del pane.
- Sei assai cinico se non provi alcun dolore
- pensando ciò cheil mio cuore si immaginava,
- e se non piangi ora, per cosa di solito soffri?
- Erano già svegli e si avvicinava il momento
- in cui veniva solitamente portato il cibo,
- ma in seguito al sogno tutti ne dubitavano;
- e io sentii chiudere a chiave la porta di sotto
- alla torre della sofferenza; e per questo io
- guardai negli occhi i miei figli senza parlare.
- Io non piansi, ma dentro divenni di pietra:
- loro piangevano ed il mio piccolo Anselmo
- disse: ‘Padre, ci guardi così strano, che hai?’.
- Perciò non piansi e non risposi
- per tutto il giorno e per la notte successiva,
- fino a quando sorse di nuovo il sole.
- Quando un raggio di luce riuscì ad entrare
- nel doloroso carcere, ed io distinsi nei loro
- quattro volti il mio stesso aspetto,
- mi morsicai entrambe le mani;
- ed essi, pensando che io lo stessi facendo
- per la fame, immediatemente si alzarono
- e dissero: ‘Padre, avremo meno dolore
- se tu mangi noi, tu li hai vestiti e tu
- li spoglierai, questi miseri corpi’.
- Mi calmai per non renderli ancora più tristi;
- restammo in silenzio per due giorni;
- ah terra crudele, perchè non ci prendesti?
- Quando giungemmo al quarto giorno,
- Gaddo mi si gettò ai miei piedi,
- e mi disse: ‘Padre mio, perchè non mi aiuti?’.
- E così morì; e come tu vedi me,
- io li vidi morire tutti e tre, tra il quinto
- ed il sesto giorno, momento in cui iniziai,
- ormai cieco, a camminare sopra di loro,
- per due giorni li chiamai, dopo la loro morte.
- Infine, più che il dolore, potè la fame'.
- Quando ebbe finito, riprese il teschio meschino,
- con occhi pieni di odio e con denti forti
- come quelli di un cane, per masticarlo fino all’osso.
- Ahi Pisa, vergogna delle popolazioni
- del paese dell’Italia, poichè le città
- confinanti sono lente a punirti,
- si muovano Capraia e Gorgona, così da creare
- uno sbarramento alla foce dell’Arno
- e che tutta la tua popolazione anneghi!
- Perché se pure Ugolino aveva fama
- d’aver tradito Pisa cedendone alcuni castelli,
- non avresti dovuto condannare i suoi figli.
- Erano resi innocenti dalla giovane età,
- o nuova Tebe, Uguccione, il Brigata
- e gli altri due, Gaddo e Anselmuccio.
- Noi proseguimmo, là dove il ghiaccio
- imprigiona altri dannati, i traditori degli ospiti,
- ma posti non a testa in giù, ma del tutto girati.
- Il piangere, qui, non permette di piangere,
- e le lacrime ghiacciate che impediscono
- alle altre di sgorgare, aumentano ancora il dolore;
- poichè le lacrime stesse formano un nodo,
- così come fossero visiere di cristallo,
- e riempiono del tutto la cavità oculare sotto il ciglio.
- E siccome, come un callo,
- a causa del freddo ogni sentimento
- aveva cessato di stare sul mio viso,
- così mi sembrò che ci fosse del vento;
- e dissi: “Maestro, chi produce questo vento?
- Non è assente qui ogni forma di vapore?”.
- Ed egli a me: “Presto sarai nel posto in cui
- riuscirai a darti una risposta, vedendo
- il motivo per cui il vento viene dall’alto”.
- Ed uno dei dannati della Tolomea
- gridò verso di noi: “O anime crudeli,
- dato che voi siete destinati all’ultima zona,
- levatemi dagli occhi le lacrime ghiacciate,
- così che io possa sfogare il dolore che mi
- prende, prima che il pianto le congeli ancora”.
- Ed io a lui: “Se vuoi che io ti aiuti,
- dimmi chi sei, e se io non ti sarò d’aiuto,
- andrò fino in fondo a Cocito”.
- Quindi rispose: “Io sono frate Alberigo;
- sono colui che viene dall’orto del peccato,
- e qui ricevo datteri al posto di fichi.”
- “Oh” risposi “sei già morto?”
- E egli a me: “Ignoro totalmente Il motivo
- per cui il mio corpo sia ancora nel mondo terreno.
- La Tolomea ha questo vantaggio,
- molte volte succede che l’anima arrivi prima
- che Atropo abbia reciso il filo della vita.
- E poiché tu mi tolga più benevolmente
- le lagrime ghiacciate dal viso,
- sappi che, non appena l’anima giunge qui
- così come feci io, il suo corpo viene preso
- da un demonio, che in seguito lo governa
- finchè non termina il suo tempo terreno.
- L’anima cade in questa specie di cavità e forse
- è ancora visibile il suo corpo sulla terra,
- come ombra dell’anima qui presente.
- Tu lo devi sapere, se giungi ora qui:
- quello è Sir Branca Doria, e sono passati anni
- da quando si trova in questo posto.”
- “Io credo”, dissi “che mi stai ingannando;
- poichè Branca Doria non è ancora morto,
- mangia, beve, dorme e vive normalmente”.
- “Nel fosso sopra” mi disse “di Malebranche,
- là dove ribolle la pece persistente,
- non era ancora presente Michel Zanche,
- quando questi lasciò nel suo corpo
- un demonio in sua vece, ed anche un suo
- parente che con lui organizzò il tradimento.
- Ma ora porgi la tua mano verso i miei occhi
- e puliscimeli dal ghiaccio”. Ed io non lo feci;
- e fu cortesia essere villano con lui.
- Ahi genovesi, uomini differenti privi
- di ogni buon costume e ricchi di vizi,
- perchè non vi disperdete nel mondo?
- Poiché con lo spirito peggiore della Romagna,
- trovai un genovese che a causa del suo
- operato, già si trova nel Cocito,
- e sulla terra il suo corpo pare ancora vivo.
1 fiero pasto: il canto XXXIII delll’Inferno si apre con la storia della parte finale della vita del conte Ugolino e dei suoi discendenti (tra cui i figli Gaddo e Uguccione e con i nipoti Nino, il Brigata, e Anselmuccio) rinchiusi nella torre dei Gualandi, luogo in cui trovarono una morte atroce per fame, come in parte già narrato nel canto precedente. Ugolino della Gherardesca (1220-1289), conte di Donoratico, originario della Lombardia e con numerosi feudi in Maremma ed in Sardegna, nonostante la sua appartenenza politica alla parte ghibellina si alleò a Giovanni Visconti, guelfo, per difendere i propri interessi personali. Inizialmente venne bandito da Pisa, ma nel 1276 riuscì a rientrarvi proprio grazie ai favori della fazione guelfa. Nel 1284 ritornò a Pisa e divenne podestà; nel 1288, l’arcivescovo Ruggieri, i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi si allearono per allontanare Ugolino e nel momento in cui lo catturarono lo imprigionarono nella torre dei Gualandi, detta della "Muda".
2 guasto: la scelta del termine da parte di Dante vuole mettere in luce già dai primi versi del canto l’espressionismo linguistico caratteristico degli ultimi canti dell’Inferno. Il poeta vuole rendere visiva e vivida l’immagine di Ugolino che tiene in mano il cranio dell’arcivescovo Ruggieri mentre è intento a sgranocchiarlo con i denti, sottolineando la bestialità e la ferocia disumana dell’episodio.
3 traditor: il traditore è Ruggieri; divenne arcivescovo di Pisa nel 1278 e grazie alla sua abilità politica e diplomatica riuscì a divenire podestà della città. Lo zio Ottaviano (o Attaviano), di sponda ghibellina, è invece collocato tra gli eretici del canto X (v. 120).
4 parlare e lagrimar vedrai insieme: si veda lo stesso concetto espresso nel momento in cui Dante incontra Francesca (Inferno V, v. 126). Ovviamente la motivazione è differente: da una parte abbiamo la differenza di situazione e di sentimento tra il passato ed il presente di Francesca, mentre in questo caso Ugolino racconta il dolore sia in vita sia in morte, e il patimento di ricordare la fine dei suoi cari.
5 fiorentino… quando t’odo: anche Ugolino, come Farinata, riconosce Dante per l’accento fiorentino.
6 fidandomi di lui: assai significativo il richiamo alla fiducia tra uomini, se consideriamo che ci troviamo nella sezione della bolgia infernale in cui vengono puniti i traditori.
7 s’è m’ha offeso: il verbo etimologicamente si richiama all’offensio, che nel codice nobiliare medievale costituiva il motivo per scatenare una vendetta.
8 Muda: la torre dei Gualandi, chiamata anche in questa maniera perchè era il luogo in cui venivano messe le aquile per cambiare le penne (cioè, a mudare). Dopo la morte di Ugolino - che al tempo ebbe una gran risonanza come fatto di cronaca - la torre divenne per antonomasia la “torre della Fame”.
9 più lune: lo scorrere del tempo è identificabile da Ugolino solo grazie alle fasi lunari, essendo rinchiuso nella torre dove è presente solo una piccola feritoia. È uno dei particolari che accresce la drammaticità e la tragicità di tutto l’episodio.
10 mal sonno: Il sogno premonitore che Ugolino ha durante una notte e che dalla mattina successiva inizia a divenire realtà.
11 maestro e donno: immagini-simbolo che rendono più vivo e concreto il sogno premonitore. Il “donno” era il capoguida delle battute di caccia.
12 al monte: si tratta del monte di San Giuliano, che divide appunto le due città toscane.
13 e per suo sogno ciascun dubitava: sembra di intuire che anche i figli e i nipoti di Ugolino abbiano avuto un simile incubo premonitore, o abbiano intuito quello del protagonista stesso.
14 al quarto dì venuti: si noti l’insistenza di Ugolino sul passare del tempo, come a sottolineare ulteriormente la straziante agonia cui sono costretti lui, i figli e i nipoti. Si tratta anche di una tecnica narrativa dantesca per creare nel lettore attesa e suspense per il tragico finale.
15 Ahi Pisa: celebre invettiva contro la città toscana, che occupa i vv. 79-90. L’invettiva è un discorso violento rivolto verso una persona, una situazione o una cosa, modulo caratteristico dello stile (e della personalità) di Dante. In questo canto sono presenti due invettive contro due città: Pisa e Genova. La prima per il poeta ha sbagliato nel condannare i figli di Ugolino, portandoli alla morte certa con la prigionia, quando invece avrebbe dovuto essere punito solo il conte per le sue scelte.
16 la Capraia e la Gorgona: sono due isole toscane vicine all’Elba, che Dante immagina come possibili ostacoli naturali alla foce dell’Arno, in una apocalittica visione punitiva di Pisa.
17 castella: Ugolino aveva venduto dei castelli in parte ai lucchesi ed in parte ai fiorentini, motivo per cui il conte si trova nella Antenora, tra i traditori della patria.
18 novella Tebe: a causa delle lotte intestine, Pisa viene paragonata a Tebe, città dell’antica Grecia celebre per i conflitti fratricidi.
19 oltre: Dante e Virgilio si spostano ora nella terza parte del IX cerchio: la Tolomea, luogo in cui vengono puniti i traditori degli ospiti.
20 la gelata: Dante come ogni volta che passa da una zona all’altra dell’Inferno spiega e descrive il luogo in cui si trova; la Tolomea è una vasta landa ghiacciata in cui sono conficcati i dannati.
21 callo: similitudine con cui Dante paragona il proprio viso ad un callo divenuto insensibile a causa del freddo.
22 Questi versi sono dedicati al colloquio con Frate Alberigo, dannato posto nella Tolomea, il quale spiega a Dante come sia possibile che i traditori degli ospiti, anche se ancora vivi nel corpo, siano già morti nell’anima, che quindi già si trova in questo luogo di dannazione.
23 Frate Alberigo: Alberigo dei Manfredi, fece parte della parte guelfa di Faenza e fu frate gaudente dal 1267. Avendo alcune discordie con suoi parenti, nel 1285, il 2 maggio, decise di invitarli a pranzo e, terminato, li fece uccidere dai servi nel momento in cui venne portata la frutta; proprio per questo motivo l’espressione proverbiale “frutta di Frate Alberigo” è un’allusione al tradimento qui ricordato.
24 Il riferimento alla frutta dell’orto del peccato è legato al segnale del tradimento stabilito tra Frate Alberigo e i suoi servi (ovvero la consegna della frutta in tavola).
25 riprendo dattero per figo: la frase, che prosegue l’immagine della “frutta di Alberigo” sta a significare che al dannato viene comminata una pena più grave della colpa.
26 Atropos: Atropo è, insieme a Cloto e Lachesi, è una delle tre Parche mitologiche; era colei che aveva il compito di tagliare il filo della vita.
27 Branca Doria: appartenente ad una nota famiglia ghibellina genovese, Branca Doria, tradì e uccise il suocero Michele Zanche, barattiere presente nel canto XXII (v. 88).
28 Ahi Genovesi: l’invettiva contro i genovesi (vv. 151-157), dopo quella antipisana, chiude il canto XXXIII.
29 peggior spirto di Romagna: ultima allusione al perfido frate Alberigo, che Dante ha appena abbandonato senza mantenere la promessa di pulirgli gli occhi dal ghiaccio (v. 150; del resto, alleviare la pena di un dannato sarebbe una grave colpa)