Introduzione
Nel canto X dell’Inferno Dante e Virgilio sono riusciti ad entrare nella città di Dite e si trovano ora nel sesto cerchio, in cui sono puniti gli eretici, costretti a stare dentro a sepolcri scoperti e infuocati fino al giorno del Giudizio Universale, quando questi verranno chiusi. Tra questi appare la figura centrale del canto, Farinata degli Uberti, capo ghibellino, artefice della vittoria contro i Guelfi nella battaglia di Montaperti (1260), morto nel 1264 ma condannato come eretico in seguito alla vittoria guelfa a Benevento 1266, e quindi disseppellito.
Riassunto
Farinata compare improvvisamente, rivolgendosi direttamente a Dante perché ne riconosce la parlata toscana: “O Tosco che per la città del foco | vivo ten vai così parlando onesto, | piacciati di restare in questo loco” (vv. 22-24). Dante è spaventato e Virgilio lo spinge ad avvicinarsi alla tomba, rivelando che si tratta del politico fiorentino: “Volgiti! Che fai? | Vedi là Farinata che s’è dritto: | da la cintola in sù tutto ‘l vedrai” (vv.31-33). Farinata viene presentato come una figura orgogliosa e fiera, con uno sguardo “sdegnoso” (v. 41) e “com’avesse l’inferno a gran dispitto” (v. 36). Interroga il poeta sulle sue origini e, scoperto che era di parte guelfa, afferma superbamente di essere riuscito a cacciarli da Firenze due volte, Dante, a sua volta, replica che entrambe le volte i Guelfi riuscirono a rientrare (vv. 46-51).
Il discorso tra i due viene interrotto dalla comparsa di un’altra figura centrale del canto, Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti, poeta e amico di Dante, a cui domanda, avendolo riconosciuto, dove sia suo figlio: “Se per questo cieco | carcere vai per altezza d’ingegno, | mio figlio ov’è? e perché non è teco?” (vv. 58-60). Il poeta risponde che lui non è giunto lì per sua volontà e ingegno, ma grazie a Dio, che Guido “ebbe a disdegno”. L’uso del verbo al passato fa credere a Cavalcante che il figlio sia morto: “Come? | dicesti ‘elli ebbe’? non viv’ elli ancora?” (vv. 67-68). Stupito dal fatto che i dannati non conoscano il presente, ma possano prevedere il futuro, Dante esita a rispondere, cosa che provoca ulteriore disperazione in Cavalcante, che ricade sconsolato nella tomba. Nei versi successivi (vv. 73-93) riprende il dialogo con Farinata, che prevede il futuro esilio di Dante. Domanda poi al poeta perché i fiorentini siano così crudeli nei confronti suoi e della sua famiglia, e Danterisponde che è a causa della sconfitta di Montaperti. Farinata, quindi, si giustifica: “A ciò non fu’ io sol... né certo | sanza cagion con li altri sarei mosso” (vv. 89-90); inoltre fu l’unico che difese la città dalla distruzione, quando fu proposta dagli altri capi ghibellini.
Dante infine chiede a Farinata perché i dannati possano vedere il futuro, ma non il presente. Questo spiega che essi sono come i presbiti: vedono solo le vicende lontane, ma più si avvicinano al presente, più perdono chiarezza, dato che la Grazia Divina ha deciso in tal modo. Con il Giudizio Universale, quando il futuro cesserà e “tutta morta | fia nostra conoscenza” (v.105) essi saranno del tutto ciechi. Dopo aver pregato Farinata di rivelare a Cavalcante che suo figlio è ancora vivo, Dante si allontana smarrito. Virgilio, venuto a conoscenza dello sconforto di Dante per il suo esilio futuro, lo conforta, ricordandogli di aspettare Beatrice, che gli rivelerà tutti gli eventi della sua vita: “quando sarai dinnanzi al dolce raggio | di quella il cui bell’occhio tutto vede, | da lei saprai di tua vita il viaggio” (vv. 130-132). Infatti, alla presenza di Beatrice nel Paradiso (come si legge nel canto XVII), l’avo Cacciaguida spiegherà a Dante il senso delle profezie precedenti.
Tematiche e sistema dei personaggi
Farinata e l’esilio
Manente di Jacopo degli Uberti, chiamato Farinata, fu un ghibellino fiorentino, a capo della sua fazione sin dal 1239. Ebbe un ruolo-chiave nel 1248 nella cacciata dei guelfi, che tuttavia tornarono in città due anni più tardi. La situazione politica per gli Uberti, notevolmente complicatasi dopo la morte di Federico II di Svevia (1250), peggiorò ulteriormente nel 1258, quando la famiglia fu condannata all’esilio a Siena. Farinata partecipò così alla battaglia di Montaperti del settembre 1260 tra le truppe ghibelline senesi e i guelfi di Firenze; il successo gli permise di rientrare in Firenze, dove Farinata morì nel 1264. Nel 1266 la battaglia di Benevento (quella della morte di Manfredi, ricordato nel terzo canto del Purgatorio) decretò invece la definitiva affermazione dei guelfi e una nuova condanna per gli Uberti. Solo diciannove anni dopo la morte di Farinata poi, l’inquisitore francescano Salomone da Lucca ordinò la condanna postuma di Farinata e della moglie Adaleta in quanto eretici: oltre alla confisca dei beni degli eredi, i resti dei due vennero dissepolti dalla chiesa di Santa Reparata e traslati in terreno non consacrato.
La figura di Farinata permetta a Dante di introdurre un tema che attraverserà tutta la Commedia: l’esilio. Da un lato si instaura un parallelismo tra la condizione del dannato e la futura sventura dello stesso poeta; dall’altro il ricordo delle sconfitte personali mette in luce la fierezza e l’orgoglio di Farinata che, pungolato dal rivale politico (vv. 49-51: “«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte» | rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiäta; | ma i vostri non appreser ben quell’arte»”), ribatte a modo, alludendo alle sofferenze che attendono il poeta (vv. 79-81: “Ma non cinquanta volte fia raccesa | la faccia della donna che qui regge | che tu saprai quanto quell’arte pesa”). Il confronto con i dannati, sin dai primi canti, è allora un modo per parlare e raccontare di sé.
Cavalcante de’ Cavalcanti e l’eresia
Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del poeta Guido, dopo la sconfitta di Montaperti del 1260 fu esiliato a Lucca e potè rientrare a Firenze solo nel 1266 dopo la vittoria dei guelfi nella battaglia di Benevento. Il padre come il figlio Guido aveva fama di seguire le dottrine di Epicuro, che, tra le altre cose, sostenevano la mortalità dell’anima. Guido, come verrà detto anche in una celebre novella del Decameron (VI, 9) fu filosofo assai rinomato al tempo, per quanto noto soprattutto per le sue ricerche eterodosse, non solo sulle tracce dell’epicureismo paterno ma anche in direzione dell’averroismo, una delle principali correnti dell’aristotelismo medievale. Il “disdegno” (v. 63) del figlio Guido nei confronti della Teologia, simboleggiata da Beatrice, se ci restituisce da un lato un profilo molto “umano” di un padre angosciato per le sorti del figlio, dall’altro permette a Dante di fissare con precisione il senso della propria missione: se l’amico Guido (ricordato fraternamente nel sonetto stilnovista Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io) si è perso dietro a errate convinzioni filosofiche, egli, per volontà della Grazia, è guidato attraverso i tre regni ultaterreni in un radicale percorso di conversione e redenzione purificatrice.