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“Inferno”, Canto 32: riassunto e commento

Introduzione

 

Nel canto trentaduesimo dell’Inferno, dopo un esordio il cui il poeta riflette sulla propria opera, Dante e Virgilio giungono al lago ghiacciato detto Cocìto, che occupa l’intero nono cerchio dove sono puniti i traditori “di chi si fida”. Esso è suddiviso in quattro zone, a seconda del tradimento compiuto: nella Caina si trovano traditori dei parenti, nell’Antenòra i traditori della patria o della propria fazione, nella Tolomea i traditori degli ospiti, nella Giudecca i traditori dei benefattori. Lo strumento della punizione è proprio il ghiaccio in cui le anime sono immerse.

In questo canto i due poeti visitano la prima e la seconda zona: dapprima incontrano Camicione de’ Pazzi, assassino del suo congiunto Ubertino, e poi diversi esponenti della vita politica fiorentina, sia guelfi che ghibellini,traditori della propria fazione. Si avvicendano quindi Bocca degli Abati, che provocò con il suo peccato la sconfitta di Montaperti, Buoso da Duera, Tesauro di Beccheria, Gianni de Soldanier, Teballo Zambrasi e Gano di Maganza, celebre personaggio del ciclo carolingio. Il canto si conclude introducendo l’episodio del conte Ugolino: per ora il personaggio non viene identificato e Dante anticipa soltanto la visione di un’anima che rode il capo di un’altra.

 

Riassunto

 

Il canto XXXII si apre con una importante dichiarazione stilistica: Dante, per descrivere il centro dell’universo - ovvero il cerchio infernale al fondo del quale risiede Lucifero - ammette che avrebbe bisogno di un linguaggio aspro, che non solo si contrapponga alla poesia soave ed armonica - di cui lui stesso aveva dato un esempio fondamentale nell’ambito dello Stilnovo - ma anche alla lingua naturale, istintiva ed affettiva, tipica della vita pratica, quotidiana e familiare 1 La difficoltà di questo compito lo induce, come spesso accade, ad invocare l’aiuto delle Muse per le rime “aspre e chiocce” (v. 1) che gli servono. Qui, nel punto più basso dell’Inferno, sono infatti puniti i peccati più gravi: vi dimora dunque un’umanità talmente degenerata che sarebbe stato meglio se fosse nata in forma animale, invece che umana.

La piana del Cocìto è formata dalla superficie ghiacciata di un lago, talmente vasta e spessa che potrebbero precipitarci sopra intere montagne senza che il ghiaccio si incrini; Dante utilizza alcuni riferimenti geografici ben noti ai suoi lettori per suggerire un’impressione di questo paesaggio ultraterreno. Il ghiaccio rappresenta non solo la sede, ma anche la punizione (o “contrappasso”) dei traditori, che infatti vi sono immersi: a seconda della zona in cui si trovano e del tipo di colpa, essi assumono una posizione diversa. I peccatori di Caina e Antenòra escono dal ghiaccio solamente con la testa. Nella prima, però, i dannati tengono il capo chinato, cosicché le lacrime escono dagli occhi e scivolano sul ghiaccio prima di congelarsi a loro volta; nella seconda, invece, le teste sono sollevate, perciò le lacrime restano nelle palpebre e qui si congelano, aggravando notevolmente la pena (in perfetta coerenza con la maggiore gravità della colpa). Anche tra le quattro zone del Cocìto, infatti, vige il consueto principio per cui, più si scende, più grave è il peccato. Le teste riempiono questo paesaggio straordinario, tanto che Dante viene invitato dalla voce di un dannato - la cui identità resta volutamente incerta - a prestare attenzione a come si muove, per non calpestarle.

Dante scorge due anime vicine tra loro quasi al punto di toccarsi e, curioso, domanda chi siano. I due dannati, alzando la testa per rispondere, subiscono la pena tipica dell’Antenòra, cioè rimangono accecati dalle loro stesse lacrime che, ghiacciate, riempiono ora i loro occhi; per la rabbia sbattono l’uno contro l’altro e non rispondono al poeta. Si intromette dunque un altro peccatore che per il gelo ha perso le orecchie: stupito dell’attenzione di Dante, gli dice che i due sono i fratelli e nemici Napoleone e Alessandro degli Alberti, nobili fiorentini, l’uno guelfo e l’altro ghibellino. Essi, che si odiavano per ragioni politiche e per motivi economici legati all’eredità paterna, si uccisero a vicenda a fine del Duecento. Per questo il dannato che parla li definisce come i più meritevoli della pena che anche lui sta scontando. Egli presenta poi altri ospiti della Caina: Mordrét, figlio o forse nipote di Artù, ucciso proprio dal re mentre cercava di eliminarlo in un agguato per impadronirsi del regno; il fazioso Vanni de’ Cancellieri, detto Focaccia, guelfo bianco di Pistoia; Sassol Mascheroni, nobile fiorentino di cui si conosce molto poco. Infine racconta di essere Alberto Camicione de’ Pazzi, che uccise il suo congiunto Umbertino per impadronirsi di alcune fortezze di cui condividevano il possesso.

I due poeti riprendono il cammino; per errore Dante colpisce una delle teste, che lamentandosi gli domanda se l’abbia fatto per vendicarsi dell’esito della battaglia di Montaperti. Dante, colpito dal riferimento, chiede coninusitata veemenza che Virgilio lo aspetti. Questo atteggiamento deciso si mantiene in tutto l’episodio: Dante insiste per sapere chi sia questa anima, prima promettendo di portarne il ricordo nel mondo dei vivi (l’ombra non lo desidera affatto, anzi vorrebbe essere dimenticata) e poi minacciando di strapparle tutti i capelli (ma l’anima non è affatto spaventata), affinché possa capire se colui che si trova davanti sia chi davvero immagina essere. Un altro dannato, sentendo il primo lamentarsi, gli chiede che succeda per urlare così; apostrofandolo come “Bocca” ne rivela l’identità. Si tratta di Bocca degli Abati, che con il suo tradimento ai danni dei fiorentini di parte ghibellina determinò la sconfitta di Montaperti 2. Dante, sdegnato, non vuol più parlare col defunto e promette che porterà nel mondo le vere notizie che ha appena appreso, togliendo ai contemporanei ogni dubbio sul suo tradimento.

Per vendicarsi, Bocca degli Abati denuncia a sua volta il dannato che ha rivelato il suo nome: è Buoso da Duera, che si fece corrompere dai francesi ai danni di Manfredi e dei ghibellini. Inoltre, Bocca nomina spontaneamente Tesauro dei Beccheria, ghibellino decapitato a Firenze per tradimento, Gianni de’ Soldanier, ghibellino passato dalla parte guelfa, Gano di Maganza, personaggio del ciclo carolingio, e Tebaldo di Faenza, ghibellino che aprì le porte della città durante la notte consegnandola ai guelfi. Allontanatosi, Dante assiste ad una scena disgustosa: un dannato mastica la testa del suo vicino. Il poeta chiede allora a quel peccatore degenerato chi sia e perché stia compiendo un’azione così mostruosa, offrendogli in cambio di portare il suo ricordo sulla terra.

 

Analisi e commento

 

Gli ultimi tre Canti dell’Inferno portano il lettore al centro della Terra e dunque, secondo la concezione tolemaica e geocentrica accolta da Dante, al centro dell’universo, nel suo punto più basso. A ciò corrisponde, secondo la costruzione generale dell’Inferno, la realtà umana più abietta e peccaminosa, punita nel modo più severo: non a caso, come Dante spiegherà nel canto trentaquattresimo, qui ha dimora Lucifero, il fondamento di ogni male, il re delle tenebre, l’emblema del rifiuto di Dio. Nel nono cerchio è insomma punita l’umanità più degenerata, e il peccato è appunto il tradimento in senso stretto, cioè perpetrato ai danni di chi non se lo aspetta (nell’ordine: parenti, patria e compagni, ospiti e benefattori), mentre i peccatori fraudolenti, puniti nelle dieci Bolge dell’ottavo cerchio, hanno almeno l’attenuante di aver recato danno a chi, non fidandosi, avrebbe potuto prevederlo. A differenza però di quanto avviene per le Malebolge qui i quattro gruppi di peccatori non sono nettamente distinti a livello topografico: non ci sono confini tra le zone e le pene sono molto simili. Cambia solo la posizione del ghiaccio: la testa chianata che permette di piangere (Caina), il viso in alto che porta le lacrime a ghiacciarsi nelle palpebre (Antenòra), la totale immersione ad eccezione del viso (Tolomea), la totale immersione (Giudecca).

Il contrappasso nel nono cerchio può essere interpretato in modo diverso: il ghiaccio può essere simbolo della freddezza del cuore, caratteristica però non solo dei traditori ma di tutti i malfattori. Forse Dante vuole evidenziare la rigidità inumana dei dannati immersi nel ghiaccio, cosicché il massimo peccato corrisponda alla massima disumanizzazione, come dimostrerebbe anche l’impossibilità di piangere esprimendo un tardivo pentimento, dalla Tolomea in poi. Infine, si potrebbe pensare al freddo gelido come contrapposto al fuoco della carità. Senza dubbio anche questa caratteristica accomuna tutti i dannati; tuttavia in questo cerchio infernale è negata qualunque forma di solidarietà, di cui qualche traccia era rimasta nei precedenti Canti. Questi peccatori, infatti, non vogliono essere ricordati sulla terra, perché sanno che la loro fama non potrebbe che essere negativa; in più anche all’Inferno i traditori continuano a tradire, rivelando le rispettive identità (sono i casi di Bocca degli Abati e di Buoso da Duera). In perfetta coerenza, l’intero canto è dominato dalla violenza e dalla durezza. Perfino Dante, spesso pietoso nei confronti dei dannati e pronto a comprenderne le azioni, pur giudicandole negativamente, qui si dimostra inflessibile, specialmente nel caso di Bocca, cui non risparmia minacce, sdegno e disprezzo, sino a giungere alla violenza fisica (il poeta dice esplicitamente di averlo afferrato per la nuca e di avergli strappato non poche ciocche di capelli).

Al contrario, Virgilio, la Ragione personificata, tace. Non bisogna d’altronde dimenticare che Dante interpreta sempre ciò che racconta secondo il proprio personale punto di vista e le sue convinzioni, che qui sono particolarmente coinvolte dalle tematiche politiche e dalle vicende storiche recenti chiamate più o meno esplicitamente in causa. Non a caso, quasi tutti i personaggi citati appartengono alla sfera della cronaca 3, e per di più recente, tanto che Dante si concede di esporre fatti non ancora del tutto chiari all’epoca, appunto proponendone la propria interpretazione. Lo si nota molto bene nel caso di Bocca degli Abati, che appunto non vuole essere riconosciuto probabilmente perché i suoi contemporanei non sapevano con certezza se fosse stato proprio lui a tradire e a causare la disfatta di Montaperti. Anche la vicenda di Ugolino, che però apprezza la testimonianza di Dante, era tutt’altro che chiara all’epoca. La scena finale, che introduce il canto successivo, conferma ed aggrava queste caratteristiche: non c’è nulla di più feroce e disumano dell’eterno cannibalismo che unisce Ugolino e l’arcivescovo.

Solo due personaggi, Mordret e Gano, sono tratti dalla tradizione letteraria: una scelta inevitabile poiché si trattava dei traditori per eccellenza, come per altro i tre grandi traditori per antonomasia, puniti nel canto trentaquattresimo dalle bocche del feroce Lucifero, i cesaricidi Bruto e Cassio (traditori dell’Impero) e ovviamente Giuda Iscariota (traditore di Gesù). Il canto, come d’altronde i due successivi, ha anche una forte caratterizzazione stilistica, un aspetto di cui Dante è assolutamente consapevole come dimostrano i versi iniziali di carattere metapoetico. Il poeta infatti identifica la tipologia poetica e il linguaggio che sarebbero più adatti alle vicende e situazioni che si accinge a presentare. Traditori, peccati innominabili, umanità bestiale e non più degna del suo nome: per parlarne in modo adeguato servono toni forti, suoni duri e rauchi, violenza anche espressiva, quelle che appunto Dante definisce “rime aspre”. Non una lingua naturale, ma una forma apposita e costruita a tal scopo, in cui abbondino le parole dal significato forte e dai suoni duri: molte consonanti, spesso vicine, rime gravi, suoni gutturali (ad esempio la vocale “u”). L’invocazione alle Muse sottolinea questi aspetti, anche se va notato come questo approccio sia topico, cioè consueto per i poeti che iniziano una nuova impresa letteraria. Ne troviamo infatti anche all’inizio delle Cantiche o in altri passi molto particolari, che Dante riesce a mettere in evidenza attraverso questo espediente.

Un altro aspetto consueto è il principio secondo cui la forma (cioè la lingua e lo stile) deve essere affine al contenuto: è una delle regole retoriche già classiche divenute più importanti per la letteratura medievale. Difficile e dolente la materia, aspro e stridente il linguaggio. Questo concetto di una poesia non naturale combacia con l’impressione che Dante, in questi ultimi canti, abbia creato una rappresentazione teatrale. Questo vale soprattutto per il dramma di Ugolino, come se con le sue parole ci portasse dentro una storia diversa e ci facesse immaginare quello che è successo a lui e ai suoi figli (canto XXXIII). Tuttavia, già i dialoghi abbastanza serrati e l’abbondanza di personaggi e situazioni diverse citati in questo canto anticipano la medesima sensazione.

1 Dante esemplifica questa lingua comune a tutti gli uomini richiamando le parole più spesso pronunciate dai bambini, cioè “mamma o babbo”.

2 La battaglia di Montaperti tra ghibellini senesi, alleati di Manfredi di Svevia, e guelfi di Firenze ebbe luogo il 4 settembre 1260. Fu una drammatica disfatta per l’esercito fiorentino.

3 Più della metà dei personaggi sono toscani e molti coinvolti nelle questioni di fazione tra guelfi e ghibellini: non è difficile quindi immaginare da dove derivi l’asprezza del tono tenuto dal poeta.