"La ginestra" di Leopardi: parafrasi e analisi del testo

Parafrasi Analisi
Lettura e analisi della poesia La ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi, a cura di Andrea Cortellessa.
 
Nel 1836 Leopardi si trova a Napoli da tre anni e compone la sua poesia La ginestra o il fiore del deserto a Torre del Greco, da dove vede il Vesuvio che nel 79 d.C aveva distrutto Pompei ed Ercolano. Questa visione storica porta Leopardi a una riflessione sul presente, a una critica del suo tempo, "il secolo superbo e sciocco [...] che credeva nelle magnifiche sorti e progressive", ma anche a una nuova indagine filosofica sul tema della morte, della catastrofe, del tragico destino umano che trascende le epoche storiche e accomuna tutti. Dal componimento emerge anche l'anti-antropocentrismo di Leopardi, già presente nelle Operette Morali: l'uomo, che si crede al centro dell'universo, è in realtà soltanto una delle tante specie che ne fanno parte. Nella quinta stanza della Ginestra si sviluppa il meraviglioso paragone tra la distruzione della raffinata civiltà di Pompei ed Ercolano e delle formiche schiacciate dal cadere di un frutto a terra. Leopardi smentisce così ogni forma retorica del progresso umano. Ma di fronte a questo destino di catastrofe si annuncia un'unione di tutte le specie nella comune consapevolezza di un destino che tutte le comprende. L'uomo è destinato ad essere sconfitto nella sua guerra contro la natura. Questa può "annichilare" tutto il genere umano, e distruggere tutte le civiltà e le speranze; tuttavia la natura "matrigna" produce anche il proprio rimedio, che è incarnato nel fiore del deserto: la ginestra. Di fronte alla perdita di ogni speranza e all'impossibilità di una prospettiva per il futuro, si sparge il suo profumo: così la scrittura poetica nasce dall'apparir dell'"arido vero", ma mantiene intatta la sua fragranza.
 
Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.
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1836: Leopardi da tre anni è a Napoli e compone quella che forse è la sua ultima poesia, La ginestra o fiore del deserto, a Torre del Greco, dove ha una splendida vista sul Vesuvio, il vulcano che tanto tempo prima, nel 79 d.c., aveva distrutto Pompei ed Ercolano. Questa visione storica, come spesso era avvenuto nei Canti, sin dalle prime canzoni, dalle canzoni giovanili, porta Leopardi ad una riflessione che ha invece un valore nel presente, un valore di critica del proprio tempo, di quello che definisce "il secol superbo e sciocco", secolo che credeva a quell'800 romantico ed idealista, e che credeva nelle "magnifiche sorti e progressive": una critica al suo tempo, ma anche un'ennesima indagine filosofica, di nuovo sul tema della morte, sul tema della catastrofe, e di nuovo sul tema di come queste morti lontane, queste catastrofi remote, ci appaiono segni del destino, segni di un destino umano che appunto trascende il tempo e la storia ed appartiene a tutti. Questa è la canzone che più direttamente in Leopardi il pensiero successivo ha individuato come segno di una possibile valenza politica, il pensiero novecentesco che parlerà addirittura di un "Leopardi progressivo", progressista che indicherà proprio nella Ginestra, nella confederazione degli uomini contro il male naturale, un punto acuminato, un punto particolarmente avanzato. In realtà in Leopardi, come al solito, le tensioni sono contraddittorie: coesiste per esempio nella Ginestra ancora il motivo che era stato già nelle Operette morali, del cosiddetto "anti-antropocentrismo". Gli esseri umani, che si credono al centro dell'universo, sono in realtà una delle tante specie in un pianeta pronto a ribellarsi loro: nella quinta stanza, nella quinta delle sette lunghe stanze della Ginestra si sviluppa il lungo paragone straordinario tra la civiltà raffinata di Pompei ed Ercolano distrutta dal vulcano e un popolo di formiche schiacciate dal cadere di un pomo, dal cadere di un frutto a terra, che appunto dilegua e smentisce ogni forma di retorica sulla storia umana, sull'immagine del divenire progressivo degli esseri umani. Al contempo, però, di fronte a questo destino di catastrofe, di fronte a questa immagine di pietrificazione che nella schiena che del formidabile monte sterminatore coglie gli esseri umani, si annuncia a tratti la presenza di quella che appunto Leopardi chiama "una federazione delle specie", una federazione degli esseri umani e delle specie animali tutte coalizzate, se non nella possibile salvezza, comunque nella comune consapevolezza di un destino che tutte le comprende. La poesia, di sette lunghe strofe, è la più lunga tra quelle raccolte nei Canti da Leopardi, ed ha come esergo un passo del Vangelo di Giovanni:

 

« Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. - E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce».
(Giovanni, III, 19)

 

Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

tuoi cespi solitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti. Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade

la qual fu donna de’ mortali un tempo,

e del perduto impero

par che col grave e taciturno aspetto

faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

lochi e dal mondo abbandonati amante

e d’afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio;

fûr liete ville e cólti,

e biondeggiâr di spiche, e risonâro

di muggito d’armenti;

fûr giardini e palagi,

agli ozi de’ potenti

gradito ospizio; e fûr cittá famose,

che coi torrenti suoi l’altèro monte

dall’ignea bocca fulminando oppresse

con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

una ruina involve,

ove tu siedi, o fior gentile, e quasi

i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola. A queste piagge

venga colui che d’esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

è il gener nostro in cura

all’amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrá dell’uman seme,

cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

son dell’umana gente

«Le magnifiche sorti e progressive».

La frase ironizzata, parodiata da Leopardi, scritta in corsivo, proviene da un testo di Terenzio Mamiani ed è un testo in cui si simboleggiava proprio il senso di una speranza storica, di una speranza di progresso sociale e politico, che il Leopardi - sempre, ma soprattutto quello degli ultimi anni - non può che irridere. Lo irride proprio perché a fronte di questa speranza umana c'è il volto enigmatico della natura, il volto indifferente di una natura che appunto con una semplice scossa può, con "moti poco lievi ancor subitamente annichilare", distruggere tutto il genere umano, tutte le sue civiltà, tutte le sue speranze e le sue costruzioni. E proprio la natura che nelle Operette Morali era stata dipinta come un mostro anonimo ed indifferente, è la stessa che produce anche il suo controveleno, questo emblema del fiore del deserto, che proprio di fronte alla desertificazione, proprio di fronte alla fine della speranza, proprio di fronte all'impossibilità di una prospettiva per il futuro, comunque sparge il suo profumo, un po' come la scrittura poetica nasce dall'arido vero, nasce dall'apparir del vero e mantiene però quella fragranza che però Leopardi ci fa percepire.

 

Nobil natura è quella

ch’a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dá la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccom’è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra sé confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune.

Una guerra, quella del genere umano, sia pur confederato, adesso destinato ad un'inevitabile sconfitta. Ed è pure accompagnata, questa sconfitta, che poi è la disfatta di una vita, di un'esistenza perseguitata da sconfitte, una dopo l'altra incatenate, che si traduce letterariamente in un exploit straordinario, in un canto che per più di trecento versi ragiona sul destino dell'umanità, sulla presenza dell'umanità sul pianeta, e che dipinge l'umanità appunto come "umana compagnia", al di là di quella che è la speranza, al di là di quella che è ogni scena di una possibile azione anche politica: Leopardi individua questa "umana compagnia" come unica presenza reale, la presenza di chi è in possesso del linguaggio, di qualcosa che assomiglia al profumo della ginestra, di qualcosa che assomiglia a quella vitalità che malgrado tutto continua a profluire, a respirare, ad esalare dal nostro stato umano.