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L'Adelchi di Manzoni: riassunto della trama e presentazione di temi e personaggi
Iniziato nel 1820, ma interrotto nel 1821 per l'avvio del romanzo storico, e concluso nel 1822, il testo di Adelchi riflette già il senso di quella polifonia narrativa e di quella complessità che nasce dalla molteplicità di punti di vista, che si riscontreranno nel romanzo. La dimensione politica della Storia ed il suo significato morale e metafisico sono al centro di una vicenda nella quale i personaggi centrali, Adelchi e sua sorella Ermengarda, si qualificano come una nuova tipologia di "eroi" in quanto il loro eroismo si definisce, infatti, sul piano dell'opposizione ed in ultima analisi della non partecipazione alla dinamica storica. Cioè si qualificano sul piano della non azione rispetto a tutti gli altri personaggi della vicenda, che sono immersi nell’agire politico, che si rivela sempre e comunque frutto di violenza ed espressione di egoismo e brame crudeli di affermazione di sè. A questa dinamica non solo partecipano i personaggi evidentemente negativi, come i traditori Svarto e Guntigi, o Desiderio e i Longobardi in genere, che esprimono una chiara volontà di autoaffermazione e di potenza priva di qualsiasi legittimazione morale, ma anche Carlo, a cui pure tocca di sviluppare un'azione, che nella lettura manzoniana appare uno sviluppo positivo della Storia.
Si rivela comunque anch’egli partecipe di un realismo politico spietato che non esita a sacrificare la moglie innocente Ermengarda alla ragion di stato e alla sua volontà di potenza, per giustificare la quale non esita a farsi interprete dei piani divini, che usa come scusa, come pretesto, come si evince dalle parole che pronuncia nell’atto secondo, quando appunto dice: "Dio riprovata ha la tua casa”, si sta riferendo ad Ermengarda per la quale comunque nutre un senso di colpa per il ripudio che le ha inflitto, “ed io starle unito dovea? Se agli occhi miei piacque Ildegarde, al letto mio compagna Non la chiamava alta ragion di regno?". La ragion di Stato quindi in realtà guida comunque l’opzione politica e l’azione politica di Carlo. È significativo d’altra parte che nella tragedia, sia Desiderio sia Carlo, così come altri personaggi, giustifichino le loro azioni facendosi interprete, secondo i propri interessi, della volontà divina. In realtà la presenza di Dio sembra potersi cogliere nell’Adelchi solo nella natura incontaminata evocata dal viaggio del diacono Martino. Ma nel momento in cui l’ispirazione divina che ha guidato il diacono, entra nella storia e quindi offre a Carlo una opzione politica, ecco che essa viene tradotta in progetti umani, che tutti si rivelano come impuri e corrotti dagli interessi di potenza, dagli interessi politici a vario titolo. In questa situazione quindi, Adelchi si delinea come l’eroe impossibile, colui che vorrebbe agire in modo puro e guardando alla gloria , ma che si trova in conflitto con una realtà umana che non lascia spazio ad un’azione pura, ma lo costringe ad azioni inique. Afferma infatti nell’atto terzo, in un dialogo con l’amico Anfrido:
La gloria? il mio
destino è d’agognarla, e di morire
senza averla gustata. Ah no! codesta
non è ancor gloria, Anfrido. Il mio nemico
parte impunito; a nuove imprese ei corre;
vinto in un lato, ei di vittoria altrove
andar può in cerca; ei che su un popol regna
d’un sol voler, saldo, gittato in uno,
siccome il ferro del suo brando; e in pugno
come il brando lo tiensi.
Qui peraltro si coglie una nota di chiaro sapore risorgimentale con questa allusione all’unità del popolo franco contrapposto alla divisione ed alla separazione che caratterizza i Longobardi sottoposti al potere di Desiderio e di Adelchi. Adelchi quindi si trova a vivere un vero e proprio conflitto romantico, che si definisce come contrasto tra ideale e reale, un conflitto che agli occhi di Adelchi si può risolvere solo sul piano dell’eterno. Infatti Adelchi soffre per la sua situazione possiamo dire, di fallimento esistenziale. Afferma infatti sempre nell’atto terzo:
Oh! mi parea,
pur mi parea che ad altro io fossi nato,
che ad esser capo di ladron; che il cielo
su questa terra altro da far mi desse
che, senza rischio e senza onor, guastarla.
- O mio diletto! O de’ miei giorni primi,
de’ giochi miei, dell’armi poi, de’ rischi
solo compagno e de’ piacer; fratello
della mia scelta, innanzi a te soltanto
tutto vola sui labbri il mio pensiero.
Il mio cor m’ange, Anfrido: ei mi comanda
alte e nobili cose; e la fortuna
mi condanna ad inique; e strascinato
vo per la via ch’io non mi scelsi, oscura,
senza scopo; e il mio cor s’inaridisce,
come il germe caduto in rio terreno,
e balzato dal vento.
Ecco che Anfrido non può rispondere che con una esortazione di una grandezza umana che si misura nel fallimento, come avevamo visto a proposito del Cinque maggio. Infatti Anfrido gli risponde:
Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,
finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso
comincia appena [...]
In realtà Anfrido auspica un possibile esito positivo alla vicenda esistenziale di Adelchi che in realtà i fatti smentiranno. A questo punto è chiaro come davanti al fallimento dell’ideale eroico di Adelchi non rimane che la stessa via d’uscita che aveva caratterizzato l’avventura umana, chiusa nel fallimento, di Napoleone. Infatti anche per Adelchi il conflitto con la realtà si può risolvere solo sul piano dell’eterno, vera patria ed altra vita ed Adelchi lo comprende in punto di morte, cioè nell’unico momento di verità totale della vita, come Manzoni sostiene in conclusione della Pentecoste. “Dona i pensier che il memore; ultimo dì non muta”, chiedeva lo Spirito Santo, cioè uno di quei pensieri che rapportati al momento della morte manterranno comunqueil loro valore, la loro importanza. Il momento della morte è il momento della verità. Ed infatti la legge della storia gli si svela come una lotta senza morale, nella quale o si fa il male o lo si subisce, nell’assenza di uno spazio reale per un’azione giusta e nobile, la legge spietata della forza guida la storia. Per questo nelle azioni in cui Desiderio prigioniero concluderà i suoi giorni si presenta come l’unica possibile felicità nella vita. Insomma nell’oscurità della vita delle persone comuni sembra di potersi ravvisare una qualche felicità. Alla fine infatti, nel momento in cui Adelchi consuma gli istanti finali, davanti al trionfatore Carlo, ecco che lo additerà come un uomo che morrà, cioè nel momento in cui Adelchi muore gli si svela come il trionfo di Carlo in realtà rapportato alla morte perde ogni sua grandezza. Carlo è un uomo che morrà come tutti sono destinati a morire. Alloro nello sguardo morente di Adelchi ecco che si palesa in tutta chiarezza l’insegnamento che la morte può offrire.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:
deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
ora tu stesso appresserai, giocondi
si schiereranno al tuo pensier dinanzi
gli anni in cui re non sarai stato, in cui
né una lagrima pur notata in cielo
fia contro te, né il nome tuo saravvi
con l’imprecar de’ tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,
ad innocente opra non v’è: non resta
che far torto, o patirlo. Una feroce
forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto: la man degli avi insanguinata
seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
coltivata col sangue; e omai la terra
altra messe non dà. Reggere iniqui
dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;
non dee finir così? Questo felice,
cui la mia morte fa più fermo il soglio,
cui tutto arride, tutto plaude e serve,
questo è un uom che morrà.
Carlo comunque morrà. E quindi la morte subita nel caso di Adelchi come un apparente fallimento in realtà rivela l’unica possibilità di riscatto e l’unica possibile giustificazione del vivere quando essa si apre, si schiude nella dimensione dell’eterno. E allora ecco che le parole di Adelchi morente presentano una svalutazione totale della sfera politica e della dimensione della storia. Ad Alenchi morente si prospetta così una sorta di morale dell’inazione ed il male del mondo risulta irrimediabile.