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Leopardi, "A se stesso": testo e parafrasi

A se stesso viene probabilmente composto a Firenze, circa nella primavera del 1833, e quindi pubblicato nell’edizione napoletana dei Canti (1835). La lirica fa parte del Ciclo di Aspasia, scaturito in seguito all'innamoramento (infelice...) di Leopardi per Fanny Targioni Tozzetti. In A se stesso viene allora presentata la profonda disillusione del poeta, dopo il rifiuto dell'amata. Leopardi rivela il profondo pessimismo e nichilismo a cui è giunto: la realtà ha perso ogni significato; ogni illusione è crollata; la vita umana è cosa misera e infelice.

Metro: Endecasillabi e settenari, con rime (“sento - spento”, “dispera - impera”, “brutto - tutto”).

  1. Or poserai per sempre,
  2. stanco mio cor. Perì l’inganno estremo 1,
  3. ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento 2,
  4. in noi di cari inganni,
  5. non che la speme, il desiderio è spento.
  6. Posa per sempre 3. Assai
  7. palpitasti 4. Non val cosa nessuna
  8. i moti tuoi, né di sospiri è degna
  9. la terra. Amaro e noia
  10. la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
  11. T’acqueta omai. Dispera
  12. l’ultima volta. Al gener nostro il fato
  13. non donò che il morire 5. Omai disprezza
  14. te, la natura, il brutto
  15. poter 6 che, ascoso, a comun danno impera,
  16. e l’infinita vanità del tutto.
  1. Ora ti riposerai per sempre,
  2. o mio stanco cuore. È sfumata l’illusione più grande,
  3. che io immaginai essere eterna. È morta. Sento lucidamente
  4. che in me e nel mio intimo
  5. è spenta non solo la speranza, ma anche il desiderio.
  6. Riposa in eterno. Ha battuto
  7. assai. I tuoi palpiti non valgono
  8. nulla, né le relazioni umane meritano
  9. illusioni. La vita è amarezza e noia,
  10. e null’altro mai; e il mondo è fango.
  11. Posa le tue inquietudini. Disperati
  12. per l’ultima volta. Al genere umano il destino
  13. non ha fatto altri doni che la morte. Ormai
  14. la natura ti disprezza, la malvagia
  15. forza che, nascosta, governa il mondo per il danno comune,
  16. e comanda sull’inutilità del creato.

1 I primi due versi rendono già bene l’idea dell’ineluttabilità della condanna alla sofferenza per il poeta; “inganno estremo” è in tal senso una trasparente perifrasi per l’amore, visto ormai come l’illusione più grande che l’uomo possa coltivare.

2 Costruzione: “Ben sento [sento, avverto con lucidità e precisione] che in noi [in me, nel mio cuore] è spento non solo la speranza di cari inganni [e cioè la speranza dell’illusione amorosa] ma il desiderio stesso [e cioè la facoltà di aspirare a questa illusione”.

3 Posa per sempre: a rendere ancor più dura e netta la confessione leopardiana, provvede il passaggio dal verbo al futuro del v. 1 (“poserai”) a questo più icastico presente, che non concede alcuna speranza di salvezza.

4 Il ricorso all’enjambement (e cioè alla spezzatura tra l’andamento sintattico della frase e quello ritmico del verso) contribuisce - come ai vv. 3-4, 7-8, 8-9, 12-13, 13-14, 14-15 - a definire la drammaticità del dialogo con se stesso del poeta.

5 Sembra risuonare in questi versi di A se stesso un atteggiamento di lotta titanica contro il mondo e le sue avversità, che, rispetto all’eredità romantica, diventa amarissimo disprezzo della crudeltà del mondo. Come spesso in Leopardi, è nello Zibaldone (3 dicembre 1821) che si può rintracciare una prima traccia del ragionamento “filosofico” dell’autore, che allude a “quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali”.

6 brutto poter: nel senso di un potere malvagio e - nella visione del mondo leopardiana, esplicitata anche nelle Operette morali - del tutto cieco ed insensibile rispetto all’esistenza e ai bisogni dell’essere umano.