Il celebre idillio leopardiano è composto a Recanati tra il 19 e il 20 aprile del 1828, e compare poi nei Canti a cura dell’editore Piatti di Firenze (1831). L'ultimo verso di ogni strofa è sempre un settenario in rima come uno dei versi precedenti. In questo componimento Leopardi rievoca una figura femminile del sua giovinezza, Silvia, morta prematuramente di tisi. Il poeta riflette quindi sull'inevitabile infelicità dell'uomo e sul crollo delle speranze. La giovane, con la sua precoce morte, diventa l'emblema della disillusione dell'età adulta.
Metro: Canzone di strofe libere, senza schema fisso. Anche lo schema rimico è libero; con l’unico elemento ricorrente del verso che chiude ogni strofe che è in rima con uno dei precedenti.
- Silvia 1, rimembri ancora
- quel tempo della tua vita mortale 2,
- quando beltà splendea
- negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi 3,
- e tu, lieta e pensosa, il limitare
- di gioventù salivi?
- Sonavan le quiete
- stanze, e le vie dintorno 4,
- al tuo perpetuo canto,
- allor che all’opre femminili intenta
- sedevi, assai contenta
- di quel vago avvenir che in mente avevi.
- Era il maggio odoroso: e tu solevi
- così menare il giorno.
- Io gli studi leggiadri
- talor lasciando e le sudate carte 5,
- ove il tempo mio primo
- e di me si spendea la miglior parte,
- d’in su i veroni 6 del paterno ostello
- porgea gli orecchi al suon della tua voce,
- ed alla man veloce
- che percorrea la faticosa tela 7.
- Mirava il ciel sereno,
- le vie dorate e gli orti,
- e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
- Lingua mortal non dice
- quel ch’io sentiva in seno 8.
- Che pensieri soavi,
- che speranze, che cori, o Silvia mia!
- Quale allor ci apparia
- la vita umana e il fato!
- Quando sovviemmi di cotanta speme,
- un affetto mi preme
- acerbo e sconsolato,
- e tornami a doler di mia sventura.
- O natura, o natura,
- perché non rendi poi
- quel che prometti allor? perché di tanto
- inganni i figli tuoi?
- Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
- da chiuso morbo 9 combattuta e vinta,
- perivi, o tenerella. E non vedevi
- il fior degli anni tuoi;
- non ti molceva il core
- la dolce lode or delle negre chiome,
- or degli sguardi innamorati e schivi;
- né teco le compagne ai dì festivi
- ragionavan d’amore.
- Anche peria fra poco
- la speranza mia dolce: agli anni miei
- anche negaro i fati
- la giovanezza. Ahi come,
- come passata sei,
- cara compagna dell’età mia nova,
- mia lacrimata speme!
- Questo è quel mondo? Questi
- i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
- onde cotanto ragionammo insieme?
- Questa la sorte dell’umane genti?
- All’apparir del vero
- tu, misera, cadesti 10: e con la mano
- la fredda morte ed una tomba ignuda
- mostravi di lontano.
- O Silvia, ti ricordi ancora
- quel periodo della vita terrena,
- quando la bellezza splendeva
- nei tuoi occhi felici e furtivi
- e tu, serena e riflessiva, ti avvicinavi
- alla soglia della giovinezza?
- Le stanze silenziose
- e le vie circostanti risuonavano
- per il tuo canto ininterrotto e spontaneo,
- quando sedevi, dedita
- ai lavori femminili, e assai felice
- di quell’indeterminato futuro che avevi in mente.
- Era il mese di maggio pieno di profumi primaverili:
- e tu eri solita trascorrere così le tue giornate.
- Io abbandonando talvolta i miei
- amati componimenti e i testi di studio su cui faticavo,
- dove si spendeva la miglior parte
- di me stesso e della mia adolescenza,
- dai balconi della casa paterna
- porgevo l’udito al suono della tua voce,
- e a quello della mano che
- scorreva veloce sulla tela.
- Perdevo lo sguardo nel cielo sereno,
- per le strade invase dal sole e per gli orti,
- e di qui il mar che appare all’orizzonte, e quindi
- gli Appennini. Il linguaggio umano non può esprimere
- quel che allora io sentivo nel mio cuore.
- Che pensieri delicati ed indecifrabili,
- che speranze, che passioni, o Silvia mia!
- Quanto felice ci appariva allora
- la vita umana e il suo destino!
- Quando mi torna in mente di tali fiduciose illusioni,
- un moto dell’animo mi stringe
- in modo acerbo e senza consolazione possibile,
- e torno a soffrire per la mia sorte sventurata.
- O natura, o natura,
- perché non dai nell’età della maturità
- ciò che hai promesso durante la giovinezza? Perché
- inganni così tanto i figli tuoi?
- Tu, tormentata e sconfitta da un male incurabile,
- prima che l’inverno inaridisse i campi,
- ti spegnevi, o tenerella. E non potevi così vedere
- il fiore degli anni tuoi;
- non ti addolciva il cuore
- ora la lode dei tuoi capelli corvini
- ora gli sguardi innamorati e pudici;
- né con te le compagne nei giorni di festa
- discutevano d’amore.
- In modo simile periva di lì a poco
- la mia dolce speranza: il destino ha negato
- ai miei anni anche
- la giovinezza.
- Ah mia speranza fonte di lacrime,
- cara compagna della mia gioventù,
- come sei trascorsa!
- È questo quel mondo che avevamo sperato?
- Questi i piaceri, l’amore, le opere, gli accadimenti
- di cui tanto discutemmo insieme?
- Questa è la sorte dell’umanità?
- Al disvelamento della verità
- tu, misera, sei caduta: e con la tua mano
- indicavi da lontano la fredda morte
- e la tomba ignuda.
1 Nota la probabile identificazione della fanciulla con Teresa Fattorini, figlia di un cocchiere di casa Leopardi morta di tisi nel 1818, il cui nome poetico è tratto dall’Aminta di Torquato Tasso; alla figura rimanda anche un importante passo dello Zibaldone del giugno del 1828 in cui Leopardi descrive e trasfigura “una giovane dai sedici ai diciotto anni” che “ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec, un non so che di divino, che niente può agguagliare. [...] quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita”.
2 vita mortale: l’incipit di A Silvia si apre esplicitamente sull’onda del ricordo malinconico, come indicato dalla scelta del verbo (v. 1 “rimembri”), dall’uso del vocativo con nome personale e dal ricorso, volutamente sfumato, del pronome determinativo (v. 2 “quel tempo”). La funzione del ricordo - cruciale per buona parte della poetica leopardiana - è sottolineata anche in un celebre passo dello Zibaldone del 14 dicembre 1828: “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”.
3 ridenti e fuggitivi: i due termini, quasi in endiadi come “lieta e pensosa” al v. 5, indicano sia la giovanile attesa della bellezza della vita sia la percezione, oscuramente percepita, della sofferenza che l’attende; di qui la speranza e il timore nello stesso sguardo. Il tutto contribuisce alla caratterizzazione psicologica assai puntuale della figura femminile.
4 La costruzione sintattica con la pausa dettata dalla virgola al verso 7 e la scansione tra lo spazio interno (“le quiete | stanze”) e quello esterno (“le vie dintorno”) quasi riproduce la propagazione ad eco del canto della fanciulla.
5 Tra gli “studi leggiadri” e le “sudate carte” è forse ravvisabile la distinzione tra la passione leopardiana per la poesia e gli studi di erudizione su cui Leopardi stesso spende la propria adolescenza. Da notare la figura retorica del chiasmo “studi leggiadri - sudate carte”.
6 veroni: aulicismo per “balconi”.
7 Nell’immagine di Silvia intenta a lavori di cucito si noti la figura retorica della metonimia, che sostituisce all’effetto (il suono) la sua causa (appunto, la “man veloce”).
8 Più che un’effettivo sentimento d’amore, Leopardi intende qui la compartecipazione di una stessa situazione esistenziale, quella appunto della giovinezza speranzosa e serena, non ancora turbata dalle sofferenze e dalle inquietudini della vita.
9 chiuso morbo: la tisi, o “mal sottile”.
10 Il soggetto della frase è la “speranza mia dolce” del v. 50; alla figura di Silvia si sovrappone dunque, nell’amarissimo finale, la speranza stessa, che indica la tomba come destino comune dell’umanità. “L’apparir del vero” (v. 60) è insomma il crollo delle illusioni nutrite in gioventù, e che le sofferenze della vita adulta hanno smontato pezzo per pezzo.