Introduzione
Il Passero solitario fu composto probabilmente a partire dal 1831. La sua struttura metrica è quella della canzone libera in endecasillabi e settenari alternati, tipica dei canti successivi al silenzio poetico dell'autore (1822-1828). In questo componimento il poeta opera un parallelo tra la sua solitudine ed esclusione esistenziale e quella di un passero, che in primavera canta solitario. Centrale è anche un motivo tipico della produzione leopardiana, ovvero il rimpianto di non godere della gioventù che fugge.
Analisi
Nella prima strofa della lirica (vv. 1-16) Leopardi descrive un paesaggio primaverile vago e armonioso. Da questo quadro felice, in cui tutti gli esseri viventi condividono la gioia per il ritorno della primavera, emerge il contrasto con il passero solitario, che "pensoso in disparte il tutto mira" (v. 12; da notare la scelta dell’aggettivo “pensoso”, più adatto a un essere umano, quale il poeta, che non a un volatile) che e non partecipa a questa atmosfera di felicità e rinnovamento, ma canta "finché non more il giorno" (v.3). Leopardi nella descrizione usa termini e immagini tipici della poetica dell'indefinito, come al v. 1 ("torre antica"), dove l'aggettivo crea un effetto di lontananza temporale e spaziale e al vv. 2-3 ("alla campagna… vai"), che crea un senso di indeterminatezza e vastità del paesaggio; la determinazione di luogo verrà ripresa al v. 37, "alla campagna uscendo", dando vita al confronto tra il passero e Leopardi stesso.
Dai vv. 17-44 si realizza il parallelo tra la vita solitaria del passero, voluta e cercata per disposizione naturale, e quella del poeta, che, come l'uccello, osserva in disparte la vita, che si rinnova gioiosa in primavera, metafora abbastanza esplicita della giovinezza. Questo innaturale senso di isolamento e il rifiuto di godere delle gioie dell'età giovanile non sono del tutto comprensibili a Leopardi (v. 22: "io non so come”) e diventano il suo personale destino, proprio nel momento in cui il poeta si mette a confronto con gli altri giovani che si preparano a festeggiare l'arrivo della primavera (vv. 32-33: "La gioventù del loco | Lascia le case, e per le vie si spande; | E mira ed è mirata, e in cor s'allegra"). Un elemento visivo esterno, il sole che tramonta e "par che dica | che la beata gioventù vien meno" (vv. 43-44) porta Leopardi ad affrontare la realtà: in futuro rimpiangerà il mancato godimento della giovinezza, perché "Ogni diletto e gioco | indugio in altro tempo" (vv. 38-39).
L'ultima strofa (vv.45-59) è incentrata ancora sul confronto tra il passero e l'autore: l'uccello, per sua natura, poiché vive secondo l'istinto, non rimpiangerà il suo modo di vivere (vv. 46-49: "Del viver che daranno a te le stelle, | certo del tuo costume | non ti dorrai, che di natura è frutto | ogni vostra vaghezza"), mentre il poeta, se giungerà alla dura età matura, sconsolato si volgerà indietro e si pentirà del passato. La vecchiaia è vista in maniera negativa, rende "il dì presente più noioso e tetro", soffocando ogni passione.
Le fonti letterarie
Diverse sono le fonti letterarie che hanno ispirato Leopardi nella composizione del Passero solitario, alcune classiche ed altre più recenti. Maria Corti (nel saggio Passero solitario in Arcadia contenuto nella raccolta di saggi Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969) sostiene che una delle possibili fonti tematiche e strutturali di questo componimento sia L'Arcadia di Jacopo Sannazaro, pubblicata nel 1504, e in particolare l'egloga VIII. Porta a sostegno di questa ipotesi i versi 37-42 del poema quattrocentesco:
Questa vita mortale al dì somigliasi,
il qual, poi che si vede giunto al termine,
pien di scorno all'occaso rinvermigliasi.
Così, quando vecchiezza avvien che termine
i mal spesi anni che sì ratti volano,
vergogna e duol convien c'al cor si germine.
Corti si sofferma innanzitutto su "l'occaso" che "provoca la similitudine tra il giorno e la vita mortale", e sui versi 41-44 del Passero solitario, in cui si riscontra la stessa similitudine: "il Sol…cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno". Poi, mette in luce una seconda corrispondenza tra il verso 40 ("quando vecchiezza avvien che termine" e il versi 50-51 di Leopardi ("se di vecchiezza | la detestata soglia"), e ancora tra v. 41 ("i mal spesi anni che sì ratti volano") e v. 57 ("Che di quest'anni miei?") e infine tra la "vergogna e duol" sugli anni della giovinezza spesi male del verso 42 del componimento sannazzariano e gli ultimi due versi di Leopardi (vv. 58-59): "Ahi, pentirommi, e spesso, | Ma sconsolato, volgerommi indietro".
L'autrice considera anche un passo dello Zibaldone (I, 88) in cui viene citato il verso 126 dell'egloga VIII:
E tanto è miser l'uomo quant'ei si reputa disse eccellentemente il Sannazzaro. Ora in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco sopra, egli non reputandosi misero neanche sarebbe stato, come ora tanti in condizione simile a quella ch'i' ho detto, poco reputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici;
Corti, commentando, scrive: "Con tale argomento nel Passero il poeta può contrapporre la sua infelicità alla naturalezza dell'animale e dei paesani".