Molière (1622-1673), nato Jean-Baptiste Poqueline, dopo aver intrapreso l’avvocatura si allontana dal percorso tracciato dai suoi studi per fondare una compagnia teatrale, l’Illustre Théatre, con cui per oltre dieci anni attraversa la Francia per proporre nelle cittadine di provincia le sue opere, che non hanno successo nella capitale.
Dal 1658, però, riesce a riscuotere interesse alla corte di Luigi XIV, fino ad ottenere per l’Illustre Théatre il titolo di “compagnia reale”. In questo periodo vengono composti quelli che saranno considerati dalla critica i capolavori di Molière, tra i quali spiccano Il misantropo, del 1666, L’avaro, del 1668 e Il malato immaginario 1673. Con questa e altre opere Molière muove oltre il canone della Commedia dell’Arte, nel cui alveo si è formato, per apportare alcune modifiche che in Italia verranno parimenti assunte da Carlo Goldoni: un vero copione sostituisce l’improvvisazione, e i personaggi con le loro caratteristiche individuali, fisiche e psicologiche, sostituiscono le maschere tradizionali.
A livello tematico, il teatro molièriano si volge alla dissacrante critica della società secentesca nella sua interezza: nessuno si salva, dai commercianti, sospettosi e avari, alla nobiltà, oziosa e corrotta, a quella classe media di medici e avvocati concentrata solo sulla propria professione e la propria scienza, che non riesce a dare un vero apporto alla società.
In questo contesto si situa L’Avaro, commedia in cinque atti che si modella sull’Aulularia di Plauto. In questo testo Molière mette in scena il ritratto satirico di un avaro che, pur di non abbandonare le proprie ricchezze, arriva persino ad ingannare i suoi propri figli.
Riassunto
Atto I
Elisa e Cleante sono figli di Arpagone, uomo avarissimo costantemente occupato a far credere a chi gli sta intorno, persino alla sua stessa prole, di non avere le somme che effettivamente possiede, senza rendersi conto di essere così oggetto di scherno e sberleffi. Elisa è innamorata di Valerio, domestico del padre che pur essendo nobile ha deciso di fingersi povero e lavorare presso l’uomo per poter star vicino ad Elisa. Cleante, invece, è innamorato di Mariana, di condizione inferiore alla sua e con una madre molto malata. Cleante vorrebbe aiutare la sua amata, ma non gli è concesso a causa dell’avarizia del padre, che non gli consente di spendere più dello stretto necessario.
Nel frattempo Arpagone accusa Freccia, servo di Cleante, di volergli rubare ogni suo avere, facendo intendere di avere nascosto una certa somma. Freccia, di animo onesto e che ben conosce l’avarizia di Arpagone, si prende apertamente gioco di lui.
Elisa e Cleante, dopo un colloquio a cuore aperto, si risolvono a dichiarare insieme al padre i propri intenti matrimoniali, ma questi è più veloce e comunica loro di essersi innamorato proprio di Mariana e di aver deciso di sposarla nonostante le scarse risorse economiche. Ma, dichiara Arpagone, ha pensato anche al futuro dei suoi figli, non soltanto al proprio: Cleante sposerà una certa qual vedova, mentre Elisa è destinata a diventar moglie di uomo, Anselmo, che ha quasi cinquant’anni ma è disposto a portarla all’altare senza alcuna dote. Le cose, per la povera Elisa, si fanno davvero fosche: Arpagone vuole che si mariti la sera stessa.
Arpagone, per difendersi dalle proteste di Elisa, che rifiuta di accettare la sua sorte, chiama come giudice proprio Valerio, ignorando la relazione sentimentale che intercorre tra i due giovani. Valerio, capendo di aver a che fare con una situazione in cui è necessario giocar di furbizia, finge di dar ragione ad Arpagone e gli assicura che farà ragionare Elisa.
Invece Valerio suggerisce ad Elisa di fingersi malata, in tal modo potrà evitare il matrimonio.
Atto II
Freccia comunica a Cleante l’esito di una trattativa per un prestito in suo favore con Mastro Simone, un mediatore che si farà a sua volta prestare i soldi da un misterioso usuraio. Questi vuole incontrarlo in segreto per assicurarsi che appartenga ad una famiglia abbiente e, stando alle parole di Freccia, ha un tasso di interesse ben elevato e pretende di elargire parte della cifra venga non in contanti ma in vecchi mobili. Cleante, disperato, sa che non può far altro che accettare la svantaggiosa proposta, poiché si trova con l’acqua alla gola a causa delle ristrettezze in cui lo tiene il padre.
Al momento dell’incontro tra Mastro Simone e il misterioso usuraio, Cleante scopre che trattasi di suo padre: i due litigano fuoriosamente e, chiaramente, l’affare va a monte.
Giunge quindi la mezzana Frosina, che, in cambio di certe informazioni, spera di ottenere del denaro da Arpagone. Nonostante Freccia cerchi di convincerla di avere a che fare con l’avaro più avaro del mondo, Frosina decide di perseverare nei suoi intenti.
Frosina, che si sta occupando dell’organizzazione dei matrimoni, cerca di imbonire Arpagone decantandogli la remissività di Mariana e la sua vita moderata, che non porterà l’uomo a dover spendere neanche un centesimo più del necessario, arrivando a lasciar intendere che la ragazza predilige gli uomini maturi ai giovani. Frosina spera così di avere da Arpagone una somma che le è necessaria in vista di un processo, ma Arpagone, insensibile ai suoi bisogni, finge di non aver sentito ed inventa delle scuse per allontanarsi.
Atto III
Arpagone si ritrova con i figli e la servitù per organizzare il matrimonio che si festeggerà in serata. I servitori sono tutti mal messi, poiché essendo il loro padrone un taccagno si trovano costretti a dover usare vestiti lisi e sporchi senza poterli cambiare (inoltre uno di loro, Mastro Giacomo, deve occuparsi sia delle pietanze che dei cavalli). Dopo aver fatto loro una ramanzina, Arpagone si assicura che Cleante non si comporti malamente con Mariana, invitata a partecipare alla festa, come fanno certi figli con la futura matrigna, ma la tratti invece con cortesia. Cleante assicura al padre che non ha intenzione di fare altrimenti.
Vedendo Valerio arruffianarsi il padrone, Mastro Giacomo confessa ad Arpagone tutte le maldicenze che, da Valerio e da altri, vengono dette sul suo conto. Ma Arpagone non crede ad una parola ed, anzi, se la prende con il servo troppo solerte.
Mariana, una volta giunta alla dimora di Arpagone, resta disgustata dai modi dell’uomo e, scoprendo che il suo innamorato è, in realtà, il figlio del promesso sposo, si confida con Frosina spiegandole l’inghippo. Cleante dichiara implicitamente il suo amore per Mariana, ma Arpagone non capisce, e fa di tutto per innervosire il padre: regala persino alla donna un preziosissimo anello a nome di Arpagone, che non può fare nulla per evitarlo.
Atto IV
Cleante, Mariana, Elisa e Frosina si trovano dunque per formulare un piano in favore delle due giovani coppie di innamorati. Mariana dovrebbe convincere la madre a rifiutare la proposta di Arpagone e, nel frattempo, gli altri dovrebbero far cambiare idea ad Arpagone. In più, Frosina, decide di consultarsi con un’amica che potrebbe recitare la parte della nobildonna interessata a un matrimonio con Arpagone, in modo da far desistere definitivamente l’uomo a sposarsi con Mariana.
Cleante, così, non appena Mariana si allontana, comincia a parlar male di lei con Arpagone, il quale, insospettito dal precedente comportamento del figlio, non si fida di questo improvviso cambio di prospettiva e finge di aver cambiato idea, data la giovane età di Mariana, e di volerla dare in sposa al figlio. Quando Cleante, commosso dalla saggezza paterna, ammette il suo amore per Mariana, Arpagone fa marcia indietro e intima al figlio di stare lontano dalla sua promessa sposa.
Padre e figlio litigano furiosamente e le cose sembrano appianarsi solo grazie all’intervento di Mastro Giacomo. Questi, per riportare la pace e compiacere i padroni, parlando con Arpagone finge che Cleante gli abbia detto di volersi rimettere alle decisioni paterne, mentre parlando con Cleante sostiene che Arpagone ha capito il suo errore e ha deciso di lasciargli sposare Mariana. In questo modo, quando Arpagone e Cleante tornano a parlarsi, ogni discordia sembra essere superata, ma basta andare avanti con il discorso per far sì che l’inganno di Mastro Giacomo venga a galla. Arpagone e Cleante, fermi sulle proprie posizioni, riprendono la discussione.
In conclusione dell’atto, Cleante, ormai solo, viene raggiunto da Freccia, che ha trovato il nascondiglio del denaro del padre e si è impossessato del bottino: si tratta di una somma pari a diecimila scudi. I due fuggono via, consapevoli di avere Arpagone in pugno, mentre da lontano si odono le urla dell’avaro, che ha appena scoperto il furto.
Atto V
L’ultimo atto si apre con l’arrivo del commissario e la testimonianza di Mastro Giacomo, il quale sostiene che sia stato Valerio a rubare la cassetta piena di scudi di Arpagone. Mastro Giacomo, naturalmente, sta dicendo falsità, ma Arpagone, cieco di rabbia, gli crede.
Così quando Valerio arriva viene accusato di ogni scelleratezza. Il giovane, ignaro del furto, pensa che il tradimento a cui Arpagone si sta riferendo sia la sua storia d’amore con Elisa. Così Valerio confessa tutto, ma senza far mai il nome della ragazza. In questo modo mentre Valerio, ostinatamente, professa la sua dedizione e il suo rifiuto di voler cedere, Arpagone inveisce contro di lui pensando che non voglia riconsegnargli i suoi soldi. L’equivoco va avanti lungo tutto il dialogo, finché Arpagone non capisce che Valerio si sta riferendo alla figlia, continua però a ritenerlo responsabile anche del furto: di fronte al doppio tradimento Arpagone è furioso.
Sopraggiunge Anselmo, che di fronte all’evidenza decide di non voler più sposare Elisa, poiché non farebbe contrarre a forza un matrimonio a nessuna donna. Valerio, però, è ancora sotto accusa, e si difende sostenendo di avere alti natali e dichiarandosi figlio di un nobiluomo napoletano, Tommaso D’Alburzio. Valerio, infatti, si è salvato con un servo dal naufragio in cui hanno trovato la morte i genitori e la sorella e, anni dopo, avendo saputo per vie traverse che il padre era sopravvisuto anch’egli, si era mosso per cercarlo. Dopo aver incontrato Elisa, però, aveva deciso di incaricare terzi della ricerca di Tommaso D’Alburzio per introdursi come servitore a casa di Arpagone e star così vicino alla donna amata. Mariana, che ha assistito a tutta la conversazione, in preda alla commozione fa a sua volta una confessione: ascoltando le parole di Valerio ha capito che dice il vero e che essa stessa è sua sorella. Anche lei e sua madre non sono perite nel naufragio, ma, rapite dai pirati, sono state tenute in prigionia dieci anni per poi, senza più fortune, dimorare in quelle terre vivendo di stenti.
Ma i colpi di scena non sono finiti: Anselmo è in verità proprio Tommaso D’Alburzio. Non potendo tornare a Napoli per motivi politici, Anselmo ha deciso di viaggiare sotto falso nome e, sicuro della morte della moglie e dei figli, di risposarsi.
Arpagone, tuttavia, accusa ancora Valerio del furto del suo denaro, ma a quel punto interviene Cleante che sostiene di sapere dove si trova la cassetta incriminata e di essere pronto a riconsegnargliela se solo accetta di lasciarlo sposare Mariana.
Arpagone, su insistenza di Anselmo, che accetta anche di prendersi carico di tutte le spese matrimoniali, e consapevole di aver più a cuore il suo denaro della sua famiglia, pur di non perdere i suoi diecimila scudi acconsente ai due matrimoni dei figli.
Commento
L’argomento su cui si fonda l’intera struttura narrativa de L’avaro, commedia rappresentata per la prima volta il 9 settembre 1668, è, in accordo con il tema principe dell’Aulularia plautina, il denaro. Certo, anche l’argomento amoroso ha tanta parte nell’economia dell’opera, ma senza la caratterizzazione di Arpagone, inguaribile taccagno, costantemente intento ad anteporre i propri interessi su quelli dei figli, non vi sarebbe storia. L’amore, quindi, risulta subordinato all’avarizia del protagonista; un’avarizia cieca, che sembra vivere di vita propria dominando il malcapitato Arpagone che, completamente accecato - innamorato, verrebbe da dire, delle sue monete - sembra non essere completamente in grado di rispondere delle proprie azioni.
Da notare che, se Valerio e Mariana, innamorati dei figli di Arpagone, non possiedono ricchezze, neppure Cleante ed Elisa hanno davvero una sicurezza economica. Vittime dell’assurda economia paterna, i due giovani non possono vantare un’indipendenza economica, al punto che Valerio si riduce al gioco d’azzardo per poter acquistare vestiti dignitosi e, al momento del bisogno, non potendo chiedere aiuto al padre, si rivolge agli usurai (il fatto, poi, che l’usuraio si riveli proprio Arpagone è un altro rivolgimento narrativo).
Per un attimo il lettore/spettatore può illudersi di intravedere un moto sentimentale nelle azioni Arpagalo, quando l’avaro sostiene di essere rimasto affascinato dalle grazie di Mariana e di volerla sposare; non bisogna però dimenticare che la giovane donna, pur trovandosi nell’indigenza, possiede una piccola dote con cui pagare le spese matrimoniali e, per il resto, avendo uno stile di vita moderato, non peserebbe al bilancio familiare.
Arpagano, dunque, si lascia andare ai sentimentalismi solo dopo averne ponderatamente valutato i risvolti economici; vediamo infatti che, nel caso della propria figlia, alla cui dote dovrebbe provvedere, Arpagone preferisce trovare una soluzione di comodo: il futuro marito di Elisa, di età ormai matura, farebbe a meno della dote essendo già ricco e, fondamentalmente, di buon cuore.
La taccagneria di Arpagone viene quindi evidenziata in massimo grado dalla sua condotta negli affari sentimentali, i propri come quello dei figli, ed è di natura ben diversa da quella che regge la trama dell’Aulularia di Plauto. Infatti Euclione, l’avaro plautino, è in realtà un uomo povero e questo aspetto rende la sua condotta se non legittima quanto meno comprensibile. Arpagone, invece, ha una solida sicurezza economica e il suo, allora, è un mero vizio, di cui è l’unico responsabile. Questa responsabilità individuale è accentuata nell’opera dal diverso carattere con cui vengono dipinti i figli di Arpagone. Non a caso, per sottolineare l’immoralità insita nell’animo del vecchio padre, le, le vicende sentimentali di Elisa e Cleante si svolgono in una direzione opposta a quelle paterne. Entrambi i giovani sono innamorati di due persone dichiaratamente indigenti, ma questo aspetto non è visto come un freno all’amore che li lega. Valerio, infatti, è il servo di Arpagone, mentre Mariana, sola con la madre malata, vive una vita di stenti al punto che, all’inizio dell’opera, Molière fa dichiarare a Cleante la sua impossibilità di aiutarla, pur non desiderando altro, per colpa dell’avarizia di Arpagone.
Da notare come, nonostante la conclusione felice della vicenda, in realtà questa non sia completamente positiva ma resti in una zona d’ombra: Arpagone non si ravvede. Mentre i suoi figli convolano felicemente a nozze e Valerio e Mariana possono riabbracciare il padre che credevano perduto, Arpagone corre ad abbracciare il denaro che parimenti credeva perduto. Insomma, Arpagone, in ultima analisi, resta solo, mentre attorno a lui si celebra l’amore e la famiglia: amore che non può avvertire tanto il suo animo è ormai corrotto e famiglia che ha rinnegato in nome del denaro.
L’avaro è, insomma, un’opera che si basa principalmente sull’analisi dei sentimenti, sui moti dell’animo più che sull’azione. I personaggi stessi non vengono descritti fisicamente, mentre largo spazio è dato ai loro sentimenti, ai loro caratteri psicologici, che sono il vero motore della trama. Ad Arpagone, avaro prigioniero del suo stesso vizio, fanno da contraltare i quattro giovani, mossi dall’amore e di animo retto, e una pletora di servitori dall’atteggiamento ambiguo. Se in alcune figure si può riconoscere oltre le macchinazioni una chiara condotta morale, come nel caso di Frosina, che pur cercando di gabbare Arpagone si mostra coinvolta nelle disgrazie amorose dei giovani e disposta ad aiutarli, o di Freccia, servo fedele di Cleante che non esita a derubare Arpagone per aiutare il suo padrone, altre restano più ambigue, come Mastro Giacomo, che tuttavia verrà perdonato nelle sue malefatte.