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Alessandro Manzoni, Lettera a D'Azeglio "Sul Romanticismo": spiegazione e commento
Il marchese Cesare D’Azeglio aveva pubblicato sulla rivista “L’amico d’Italia” la Pentecoste, ed aveva poi elogiato gli scritti di Manzoni avanzando tuttavia delle riserve sulla validità e la durata del sistema romantico. Manzoni gli risponde con la "Lettera a Cesare D’Azeglio sul romanticismo", nel settembre del 1823. Pubblicata poi nel ’46 senza l'assenso dell’autore, fu da lui ripubblicata nel ’70 con delle varianti. Manzoni, ricollegandosi alla polemica classico-romantica, innanzitutto puntualizza come il romanticismo in Italia avesse delineato queste tre idee in negativo che dovevano ispirare la nuova letteratura. La prima, il rifiuto della mitologia. La seconda, il rifiuto dell'imitazione servile dei classici. La terza, il rifiuto delle regole arbitrarie, in particolare delle unità aristoteliche. Questi principi non solo gli appaiono particolarmente ragionevoli, ma aggiunge che il romanticismo per lui è preferibile al sistema letterario tradizionale anche per un altro motivo, cioè per la sua maggiore tendenza cristiana. Il classicismo infatti, adottando le immagini prese dal mondo pagano, a suo giudizio, veicola e sostiene le idee morali e la concezione della vita propria di quel mondo, dove vigeva una vera idolatria per la sola dimensione terrena dell’uomo e le passioni ad essa connesse. Passioni appunto che oggettivamente diffonde il linguaggio del classicismo contro gli insegnamenti di Cristo, che ha inteso distruggere i giudizi sulle cose ed i sentimenti precedenti il suo insegnamento. Un altro aspetto che Manzoni dice di apprezzare è costituito dal fatto di aver trasgredito le leggi letterarie tradizionali in nome delle esigenze intrinseche del soggetto trattato. E questo i romantici hanno fatto promuovendo un sistema basato su idee naturali e sulla rappresentazione naturale della condizione umana e degli individui. Per quanto riguarda invece i principi in positivo sostenuti dal romanticismo, per il Manzoni si riassumono nel fatto che la letteratura deve avere il vero come oggetto, che solo crea un diletto nobile che eleva ed arricchisce la mente, al contrario del falso, che può si trastullarla, ma non arricchirla ed elevarla. Deve avere poi l’interessante come mezzo, cioè argomenti presi dalla vita comune e quotidiani al fine di interesare e coinvolgere il maggior numero di lettori, il maggior numero di persone e non solo le persone colte, non solo i letterati. Deve inoltre avere l’utile morale come scopo, confermando così come il bello, per Manzoni, non sia un valore autonomo se privo di una giustificazione etica. In conclusione della lettera tuttavia Manzoni riconosce che è difficile, se non impossibile, sia definire il concetto di vero nell’applicazione riguardo ai lavori di immaginazione, dato che dell’inventato, cioè del falso, non può appunto essere eliminato nei lavori di immaginazione in quanto tali, avanzando così la problematica estetica che lo travaglierà per tutto il suo periodo creativo e che alla fine lo porterà con coerenza implacabile all’abbandono della letteratura.