Analisi del testo, spiegazione e commento dell'ode, a cura di Alessandro Mazzini.
Il
Cinque Maggio viene composta da
Alessandro Manzoni "di getto" (cosa eccezionale per lui) alla notizia della morte di
Napoleone Bonaparte, il 5 maggio 1821. Quest'ode dà in Europa una
rappresentazione e un'interpretazione definitiva del vissuto di Napoleone; basti pensare che fu subito tradotta da
Goethe in tedesco. E' significativo che
la struttura metrica sia la stessa del coro dell'atto IV dell'Adelchi. Entrambi i testi, infatti, affrontano il
tema dell'eroismo, demistificandolo: esso viene identificato come spargimento di sangue e perpetuazione di sofferenze. Anche il personaggio di Ermingarda nell
'Adelchi, che pure non parteciperà alle azioni politiche del suo popolo, in qualche modo rientra in quella logica che spiega la dinamica storica: o si è oppressi o si è oppressori.
Napoleone, al termine della sua vita, da oppressore diventa oppresso: un uomo vinto dal ricordo dalle grandi imprese, che ora gli appaiono come fallimenti. L'ode prende forma in un
susseguirsi di antitesi tra stasi e movimento, tra luce e tenebra (a partire dall'incipit: "Ei fu"). Manzoni rievoca le gesta napoleoniche: "Dall'Alpi alle Piramidi, | dal Manzanarre al Reno, | di quel securo il fulmine | tenea dietro al baleno; | scoppiò da Scilla al Tanai, | dall'uno all'altro mar." (vv. 25-30), per poi arrestarsi al v. 21 in una pausa di riflessione dalla rilevanza drammatica: "Fu vera gloria?".
Il Cinque Maggio è concepito come una sorta di inno sacro; la vicenda storica di
Napoleone comporta una
profonda riflessione sul "noi", diventando testimonianza di una norma universale che, a partire dal v. 55, rivela l'inganno dell'eroismo nella storia: "E sparve, e i dì nell'ozio | chiuse in sì breve sponda, | segno d'immensa invidia | e di pietà profonda, | d'inestinguibil odio | e d'indomato amor." (vv. 55-60).
Alessandro Mazzini è professore di Greco e Latino presso il Liceo Classico Manzoni. Si è laureato in Letteratura Greca con il professore Dario Del Corno presso L'Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con riviste di divulgazione culturale e ha insegnato per 10 anni Lingua e Letteratura Italiana e Lingua e Letteratura Greca presso il Liceo della Scuola Svizzera di Milano. Dal 2001 è ordinario di Italiano e Latino nei Licei e dal 2003 ordinario di Greco e Latino al Liceo Classico.
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Il Cinque Maggio viene composta da Manzoni "di getto", cosa eccezionale per lui, appena pervenuta la notizia dell'avvenuta morte il 5 maggio 1821, di Napoleone Bonaparte. La notizia appunto scosse profondamente Manzoni e quest'ode diede anche nel panorama europeo una rappresentazione in qualche modo ed un'interpretazione più che altro definitiva in merito al senso dell’esperienza e del vissuto di Napoleone; basti pensare che fu subito tradotta da Goethe in tedesco proprio perchè ne riconobbe la profondità e l’altezza di ispirazione. E' significativo che la struttura metrica del Cinque Maggio sia la stessa che Manzoni utilizzerà per il coro dell'atto IV dell'Adelchi, cioè "Sparse le trecce morbide". Significativo perchè entrambi i testi, in qualche modo, da prospettive diverse ovviamente, affrontano il tema dell'eroismo, e lo demistificano. L’opera di Manzoni in generale si può concepire come un’opera tesa alla costante demistificazione di tante idee legate a tradizioni anche nobili e consolidate, ad esempio appunto il tema dell’eroismo. Quel tema dell’eroismo delle grandi personalità, la cui azione nella storia non significa altro che spargimento di sangue, che perpetuazione di sofferenze. Anche Ermingarda, che pure non parteciperà alle azioni politiche del suo popolo, in qualche modo, come dirà appunto il coro a cui facevo riferimento prima, parteciperà della logica che agli occhi di Manzoni spiega la dinamica storica e cioè la logica per cui o si è oppressi o si è oppressori, o si agisce nella storia, e per fare questo si compie il male o ci si rifiuta di compiere il male e si è oppressi.
In qualche modo anche Napoleone, che si è comportato per tutta la vita da oppressore, pur con la grandezza delle sue imprese alla fine diventa un oppresso, oppresso da se stesso, oppresso dal suo passato, oppresso dalla sua sconfitta, oppresso soprattutto, come dice in conclusione dell’ode, dal ricordo della sua esperienza. Quando infatti Manzoni immagina gli ultimi giorni di Napoleone lo vede come un uomo che è superato, che è vinto dal ricordo delle sue grandi imprese che ora gli appaiono come un fallimento. E’ significativo sotto questo aspetto soffermarsi brevemente sull’attacco dell’ode: “Ei fu”. In qualche modo la forte pausa dopo il verbo isola l’espressione, che è un’espressione di profonda antitesi, un’espressione potremmo dire ossimorica. “Ei”, non c’è bisogno neanche di nominarlo. “Ei” che recupera la funzione dell’is latino, quel grande, quel famoso, quell’eroe così immenso che non occorre neanche nominare, fu, è morto. Anche la grandezza più grande che la dimensione umana possa attingere, scompare. In effetti tutta l'ode è un susseguirsi di antitesi tra stasi e movimento, tra luce e tenebra. Manzoni, con un potentissimo scorcio, rievoca le imprese che hanno percorso buona parte del mondo, quelle imprese che vanno "Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, quelle imprese che sono state commesse da “quel securo” che è assimilato addirittura alla potenza del fulmine. Viene infatti detto: “di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar." E al verso 31 una prima pausa di riflessione relegata ad una domanda drammatica: "Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza nui chiniam la fronte al massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar." In qualche modo la grandezza di Napoleone contiene una scintilla dell’onnipotente spirito creatore di Dio. Eppure è un uomo, eppure è fallito. Un altro degli elementi interessanti di quest’ode è il fatto che in qualche modo è concepita come una sorta di Inno sacro, cioè come gli Inni Sacri ricordavano un evento nella storia, per quanto nella storia sacra, ma avvenuto nella storia che abbia cambiato il mondo, così in qualche modo la vicenda storica di Napoleone comporta una profonda riflessione nel "noi", come appunto avviene negli Inni Sacri, che sono costruiti sulla base di una riflessione che il “noi” fa sull’evento sacro ricordato. Qui siamo nella storia certo, ma un evento storico così potente e così drammatico che comporta una riflessione in un “noi” che coglie in questa vicenda un riflesso di una norma universale. Questa norma universale che a partire dal verso 55, pone in luce l'inganno dell'eroismo e della dinamica storica. Infatti il verso 55 si apre con una “E” che in realtà ha una forte valenza avversativa. Dopo aver ricordato le grandi imprese compiute da Napoleone, Manzoni osserva: "E sparve”, ricollegandosi così alla formula incipitaria “Ei fu”. “e i dì nell'ozio | chiuse in sì breve sponda, | segno d'immensa invidia | e di pietà profonda, | d'inestinguibil odio | e d'indomato amor." E allora vediamo Napoleone che a fronte del suo fallimento sta per crollare sotto il peso dei suoi ricordi. Infatti osserva al verso 69:” Oh quante volte ai posteri Narrar se stesso imprese, E sull’eterne pagine Cadde la stanca man!". Un’ immagine di cui si ricorderà il Manzoni proprio in conclusione del Natale 1833 citando il verso virgiliano “cecidere manus”: "Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir!”
Il ricordo della grandezza passata diventa umanamente insostenibile. Niente sembra meno accettabile di un uomo che, illusosi di poter attingere ad una sfera superiore, quasi una sorta di antico eroe greco che si macchia di hybris, cioè del travalicamento dei limiti imposti dagli dei all’uomo, deve fare i conti con la propria umanità ritrovata che lasciata a se stessa è un fallimento. Ma ecco che proprio nel momento del fallimento, il momento della fine, in realtà sia rinascita in un’ottica di fede. Dio si pone vicino al letto di Napoleone morente. Si diceva infatti che prima di morire Napoleone avesse chiesto un prete. Ebbene Manzoni, rifacendosi a questa notizia, osserva che forse a tanto strazio: “Cadde lo spirto anelo, E disperò: ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò; e l’avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desidéri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò.” La “gloria che passò” non è altro che silenzio e tenebra, ma quel silenzio che si riempie di vita quando è illuminato da Dio, quando apre l’uomo alla dimensione dell’eterno, quando come la discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste fa si che l’uomo si ricongiunga, si riconnetta a Dio ed in Dio trovi quel senso che la sua vicenda umana altrimenti gli avrebbe negato.