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"Il mestiere di vivere" di Cesare Pavese

Il mestiere di vivere è il diario fidato e l'intimo interlocutore di Cesare Pavese dal 1935, anno in cui lo scrittore viene confinato a Brancaleone Calabro, all'agosto 1950, mese in cui si suicida. Einaudi lo pubblica nel 1952, a cura di Italo Calvino, Natalia Ginzburg e Massimo Mila. In queste pagine Pavese sceglie di annotare pensieri e sensazioni, creando un vero e proprio percorso poetico e autobiografico, una sorta di confessione e autoanalisi cosciente e lucida della propria attività di poeta (da Lavorare stanca a La luna e di falò) e del proprio modo di approcciarsi ed interpretare il "mestiere di vivere", da cui Pavese sarà alla fine drammaticamente sconfitto.

 

La prima parte del diario pavesiano, composta mentre l'autore si trovava confinato in Calabria in quanto antifascista, intitolata Secretum professionale si concentra principalmente su una riflessione di ambito letterario e poetico, sulla scia di uno scritto precedente, il Mestiere di poeta (1934), inserito successivamente in Lavorare stanca. Già in questa sezione s'intravedono però quei tratti personali e intimi che si affermeranno con più decisione negli anni successivi.

Il tono espressivo del Mestiere di vivere è da un lato semplice e rapido (come spesso accade quando si dialoga con sé stessi), ma dall'altro contiene tutti i toni e le sfumature della poetica pavesiana. Le tematiche intersecano l'aspetto personale e privato (con particolare attenzione alla perpetua ricerca di un amore che risulta sempre fonte di sofferenza e frustrazione) e la riflessione letterario-culturale, che coinvolge il poeta e narratore in un serrato confronto con se stesso, tra analisi del personale processo creativo, note rapide su letteratura e fatti culturali, e letture personali in corso d'opera. La crisi esistenziale dell'autore e la sottile tensione verso la soluzione suicida scorrono allora parallele nelle pagine diaristiche del Mestiere di vivere; l'unica ragione che porta Pavese a resistere fino al 1950 è la sperimentazione poetica e letteraria, tanto che sarà proprio la cessazione di un rapporto attivo con la scrittura a convincere Pavese a compiere quell'ultimo gesto di totale disperazione.

E la frase che lo scrittore lasciò sul biglietto accanto al letto dell'hotel torinese in cui si tolse la vita il 27 agosto 1950 (“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi") risuona già nelle ultime righe di diario:

 

Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio.

 

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

 

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più.