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Leopardi, il "Canto notturno" e la poetica delle "Operette morali"

Parafrasi Analisi Il pastore e l'Islandese

La collocazione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830) in posizione precedente alla Quiete dopo la tempesta e al Sabato del villaggio, va intesa come volontà di evidenziare la novità del componimento, che a differenza degli altri canti pisano-recanatesi non predilige lo sfondo borghigiano di Recanati né le tematiche della memoria e del “caro immaginar”, ma raccoglie spunti filosofici - alcuni contenuti già nell’Epistola al conte Carlo Pepoli, nelle Operette morali e soprattutto nello Zibaldone - che Leopardi riesce a sviluppare in chiave originalissima, nulla togliendo alla suggestione che la poesia emana.

Il Canto presenta subito alcune evidenti novità rispetto agli altri componimenti. Innanzitutto a parlare non è più la voce stessa del poeta. Leopardi, per meglio generalizzare, crea un vero e proprio personaggio, a cui, attraverso una sintassi piana, a tratti secca, delega imponenti interrogativi metafisici: un pastore delle steppe asiatiche, uomo incolto e cantore primitivo, che getta nel silenzio notturno versi che sembrano riecheggiare antiche litanie 1. Com’è risaputo, lo spunto gli giunge da un articolo sui Kirghisi apparso su una delle tante riviste che Leopardi poté leggere al Gabinetto Vieusseux di Firenze, il “Journal des savants”, in cui l’autore, il barone de Meyendorff, parlava di “Pleusieurs d’entre eux […] passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins” 2. Lo scenario, inedito nella lirica leopardiana, sarà infatti proprio quello di una notte fonda e di un paesaggio deserto, in cui placido dorme il gregge di pecore e lontana, indifferente, troneggia in cielo la luna 3. Questa finzione permette al poeta di far enunciare il canto a un uomo dei primordi che, proprio come quello moderno, per consolarsi da noia e dolore, adopera il genere lirico, il più “primigenio di tutti”. Come spiegato nello Zibaldone:

[...] dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l'esperienza de' poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell'uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche 4.

Vengono così posti sullo stesso piano due elementi del pensiero leopardiano che non avevano inizialmente nulla in comune. Il primitivo è infatti da sempre “poetico”, mentre il moderno è “filosofo”; il primitivo pratica le illusioni e vive secondo natura, il moderno è ormai un essere disilluso e lontano dalle prescrizioni naturali; il primitivo non è schiacciato dal peso della noia e dell’infelicità perché la sua vita, al contrario di quella dell’uomo moderno, è attiva e piena di slanci. Compare, per la prima volta nei Canti, un “primitivo moderno”, carico di infelicità e consapevole dell’“acerbo vero”. Questo canto diventa così particolarmente peculiare perché segna l’approdo lirico a una drammatica identità, a un’infelicità universale che ormai stringe nella sua morsa qualsiasi condizione, anche la più “fanciullesca”. Il rimando obbligato è all’Islandese, protagonista della celebre operetta morale, che, pur avendo vissuto lontano dal “consorzio umano” e non avendo mai preteso altro che una mera sopravvivenza, non riesce comunque a evitare le fauci della Natura, a cui potrà solamente rivolgere un finale interrogativo, destinato però, proprio come quelli cosmici del pastore asiatico, a rimanere senza risposta: “a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”. L’indifferenza con cui la Natura, con gesto forse addirittura inconsapevole, distruggerà l’Islandese la ritroviamo nella luna del Canto notturnopresente e nello stesso tempo assente, la luna è destinataria silenziosa e muta, incapace di offrire risposte, alle sofferte domande del pastore. Eppure vi sono anche differenze sostanziali tra il ruolo della Natura nell’operetta e quello della luna nel presente canto: se nella prosa morale l’Islandese ha di fronte il creatore del sistema e la causa dei propri mali, non così è per il pastore, che contempla un’altra creatura, sebbene extraumana. La luna è una muta compagna, che non rappresentando il deus sive Natura della celebre formula spinoziana condiziona il lamento del pastore, rendendo il suo tono, come osserva Blasucci, più pensoso che inquisitorio 5

La prima parte del testo poetico raccoglie interrogativi sul senso dell’esistere, visto come una insensata fatica che comincia col rischio di morte durante il parto, con il bisogno di consolazione da parte dei genitori e con la fine inevitabile del “vecchierel bianco” (v. 21), che dopo una vita di stenti vede spalancarsi il burrone della morte che lo inghiottirà in un eterno oblio. Il pastore - che si definisce “semplice” (v. 78) ma che ha dalla sua la facoltà di conoscere il mondo con quell’immaginazione che Leopardi attribuisce ai primitivi e agli antichi - domanda alla luna quale sia il senso del vivere e del morire, della fatica, del tempo che passa, degli astri, del silenzio. 

Nella seconda parte il “tu” non si rivolge più all’astro ma al terzo e ultimo personaggio del canto, la greggia di pecore, che riposa di fianco al pastore seduto sulla pietra. Egli nel placido sonno degli animali scorge una forma di beatitudine che desta “invidia” (v. 107) perché esente dalla noia. La dimensione animale è priva infatti di meditazione, di sofferenza, di memoria e, appunto, di noia, la quale è, come a più riprese si legge nello Zibaldone, sempre un male. Così la vita dei bruti appare, sulle prime, preferibile a quella umana perché libera delle principali cause di infelicità. Ma lo slancio di immaginazione che, sulla scorta di queste considerazioni positive sugli animali, culmina nello scatto fantastico del pastore che per un momento prova a immaginarsi uccello, è destinato a spegnersi in fretta:

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

Nella seconda parte di quest’ultima strofa gli elementi e le figure vengono livellati e l’ipotesi che le bestie siano più felici viene superata a favore di una constatazione di infelicità assoluta e universale (“Forse in qual forma, in quale | Stato che sia, dentro covile o cuna”). Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia risulta così capace di registrare fedelmente le posizioni del pensiero in divenire di Leopardi, il quale, specie nelle pagine del diario del 1823 e in quelle degli anni seguenti, perde progressivamente fiducia nell’idea che altre forme di vita siano estranee al dolore dell’esistere, seppure continua a concedere a queste delle attenuanti che agli uomini, proprio per i danni che essi si sono autoinferti con il nocivo uso della raison, sono eternamente precluse.

Bibliografia essenziale:

- L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
- F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.
- G. Leopardi, Canti, a cura di M. Fubini, Torino, Loescher, 1964.
- G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 2011.

1 Mario Fubini parla di “antichissima e primitiva nenia” (G. Leopardi, Canti, a cura di M. Fubini, Torino, Loescher, 1964, p. 182).

2 Zibaldone, 4399-4400.

3 Secondo Mario Andrea Rigoni la luna è “simbolo di una intatta e immortale esistenza celeste, anzi di un’ideale e paradossale comprensione di tutte le cose, e senza il dolore della coscienza” (G. Leopardi, Poesie e prose, vol. 1, Milano, Mondadori “I Meridiani”, 1998, p. 968).

4 Zibaldone, 4476.

5 Cfr. Luigi Blasucci in Manuale di letteratura italiana, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 3, Torino, Bollati Boringhieri, p. 352.