"Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di Leopardi: lettura e analisi del testo

Lettura e analisi della poesia Canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Giacomo Leopardi, a cura di Andrea Cortellessa.

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia è forse il punto più alto nella storia delle forme poetiche leopardiane. La canzone libera appare come la struttura migliore per una poesia più filosofica e speculativa. Il poeta trae ispirazione per il componimento dalla lettura di un resoconto di un viaggio presso i Kirghisi, una popolazione dell'Asia centrale, in cui si raccontava che alcuni pastori del luogo intonassero canti rivolgendosi alla luna. In questa poesia Leopardi sembra ormai essersi aperto al Romanticismo: esotismo, lontananza, la situazione notturna sono alcuni dei tipici aspetti della poesia romantica. Ma la lingua e l'immaginario rimangono sempre gli stessi, come l'invocazione alla luna, come nell'idillio Alla luna.
 
Il Canto notturno è diviso in sei stanze, molto diverse l'una dall'altra. Nella prima stanza il pastore si rivolge alla luna silenziosa, confrontando la sua condizione con quella dell'astro. Il pastore si definisce "vecchierel bianco", un chiaro riferimento a un sonetto di Petrarca (Movesi il vecchierel). Il confronto sproporzionato tra essere umano e astro celeste si ritrova anche in altri Canti pisano-recanatesi, come nelle Ricordanze. Il pastore si interroga poi sulla sua esistenza, confrontando la sua situazione con quella del suo gregge, domandandosi come mai gli animali non sentano il tedio della vita. Per lui l'esistenza è male.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.
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Scritto tra l'ottobre del 1829 e l'aprile del 1830, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia nella storia delle forme poetiche leopardiane è forse il punto in assoluto più alto. La canzone libera è divenuta ormai una strofa continua, una sorta di lungo nastro narrativo e speculativo, che è il contenitore perfetto per la poesia più filosofica che Leopardi abbia mai scritto. L'aneddoto, la situazione di partenza è ricavata da Leopardi da una notizia da lui rinvenuta su una rivista del tempo, una notizia riportata da un viaggiatore russo, il barone di Meyendorf, che riportava a sua volta dei canti della popolazione dei Kirghisi, nell'Asia centrale. In questo troviamo un'apertura quasi indiscriminata di Leopardi a quella che è la poetica romantica: c'è l'esotismo, la lontananza, c'è una popolazione straniera dagli usi sconosciuti e sorprendenti, c'è soprattutto la situazione notturna. Anche gli Inni alla notte di Novalis sceglieranno l'ambientazione notturna come il set più adatto ad un'aura di mistero, l'interrogazione sui fondamenti stessi dell'universo. Eppure la lingua e l'immaginario di Leopardi sono sempre gli stessi. Sono presenti l'invocazione alla luna, presente sin dai primi idilli, con l'idillio intitolato appunto Alla luna, è presente l'interrogazione al mondo animale, con un'intensità ed una voce diretta rivolta appunto alla fauna, il mondo animale, che altrimenti non avremmo conosciuto. Vediamo, all'inizio del testo, le prime due strofe di un componimento articolato in sei stanze di entità molto diversa l'una dall'altra:

 

"Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E' la vita mortale."

In questa seconda stanza del Canto notturno Leopardi rielabora un sonetto di Petrarca dal titolo Movesi il vecchierel, e quanta distanza da quell'immaginario legato al motivo topico del pellegrinaggio, della ricerca, anche dell'amata, della desiata forma vera, quella voce amorosa che si identificava nella vita del vecchiarello bianco e canuto. Qui invece l'immagine della vita umana, della vita mortale, della vita breve, quando anche emblematizzata da una persona anziana, viene comparata a un principio metafisico, alla vita di un astro, come la luna. E questa sproporzione tra vita microcosmica, la vita dell'uomo mortale e la vita degli astri, di quelle immagini silenziose che Leopardi vedeva proiettate sullo schermo del firmamento, la ritroviamo anche in altri canti pisano-recanatesi, questi canti del '29 che sono la vetta del linguaggio lirico leopardiano, come per esempio le Ricordanze che iniziano con l'evocazione delle "vaghe stelle dell'orsa". Inoltre, una poesia filosofica che si rivolge alle entità naturali come la luna, ma che si rivolge poi agli animali: si rivolge loro chiedendo come mai non abbiano quel senso di tedio dell'esistenza che pure invece per ogni uomo è così conosciuto. "A me la vita è male", dice il pastore, confrontando la sua situazione con quella del proprio gregge.


O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perchè giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E' funesto a chi nasce il dì natale.