L’ultimo canto del Paradiso e dell’intera Commedia non può che rappresentare il culmine dell’esperienza trascendente del personaggio-Dante e il vertice della sua poesia. Il canto, che celebra la gloria della Trinità divina e il mistero dell’Incarnazione, tematizza anche, al massimo grado, lo sforzo dell’arte dantesca di adeguarsi, stilisticamente e contenutisticamente, per spiegare a dei mortali (quali siamo noi lettori di Dante) ciò che è impossibile descrivere: la visione finale - quasi a mo’ di folgorazione istantanea - del creatore dell’universo. Il canto è complessivamente diviso in due grandi parti: la prima (vv. 1-45) prosegue quanto detto nel precedente, con la preghiera di San Bernardo alla Vergine; la seconda (vv. 46-145) si addentra nel mistero divino che Maria ha concesso al pellegrino di poter contemplare.
- “Vergine Madre 1, figlia del tuo figlio 2,
- umile e alta 3 più che creatura,
- termine fisso d'etterno consiglio,
- tu se’ colei che l’umana natura
- nobilitasti sì, che ’l suo fattore 4
- non disdegnò di farsi sua fattura.
- Nel ventre tuo si raccese l’amore 5,
- per lo cui caldo ne l’etterna pace
- così è germinato questo fiore 6.
- Qui 7 se’ a noi meridïana face
- di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
- se’ di speranza fontana vivace.
- Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
- che qual vuol grazia e a te non ricorre,
- sua disïanza vuol volar sanz’ ali 8.
- La tua benignità non pur soccorre
- a chi domanda, ma molte fïate
- liberamente al dimandar precorre.
- In te misericordia, in te pietate,
- in te magnificenza, in te s’aduna
- quantunque in creatura è di bontate 9.
- Or questi, che da l’infima lacuna
- de l’universo infin qui ha vedute
- le vite spiritali ad una ad una,
- supplica a te, per grazia, di virtute
- tanto 10, che possa con li occhi levarsi
- più alto verso l’ultima salute 11.
- E io, che mai per mio veder non arsi
- più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
- ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
- perché tu ogne nube li disleghi
- di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
- sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
- Ancor ti priego, regina, che puoi
- ciò che tu vuoi, che conservi sani,
- dopo tanto veder, li affetti suoi 12.
- Vinca tua guardia i movimenti umani:
- vedi Beatrice con quanti beati
- per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
- Li occhi da Dio diletti e venerati,
- fissi ne l’orator, ne dimostraro
- quanto i devoti prieghi le son 13 grati;
- indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
- nel qual non si dee creder che s’invii
- per creatura l’occhio tanto chiaro 14.
- E io ch’al fine di tutt’ i disii
- appropinquava, sì com’ io dovea,
- l’ardor del desiderio in me finii 15.
- Bernardo m’accennava, e sorridea,
- perch’ io guardassi suso; ma io era
- già per me stesso tal qual ei volea:
- ché la mia vista, venendo sincera,
- e più e più intrava per lo raggio
- de l’alta luce che da sé è vera.
- Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
- che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
- e cede la memoria a tanto oltraggio 16.
- Qual è colüi che sognando vede,
- che dopo ’l sogno la passione impressa
- rimane, e l’altro a la mente non riede,
- cotal son io, ché quasi tutta cessa
- mia visïone, e ancor mi distilla
- nel core il dolce che nacque da essa 17.
- Così la neve al sol si disigilla 18;
- così al vento ne le foglie levi
- si perdea la sentenza di Sibilla 19.
- O somma luce che tanto ti levi
- da’ concetti mortali, a la mia mente
- ripresta un poco di quel che parevi,
- e fa la lingua mia tanto possente,
- ch’una favilla sol de la tua gloria
- possa lasciare a la futura gente;
- ché, per tornare alquanto a mia memoria
- e per sonare un poco in questi versi,
- più si conceperà di tua vittoria.
- Io credo, per l’acume ch’io soffersi
- del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
- se li occhi miei da lui fossero aversi 20.
- E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
- per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
- l’aspetto mio col valore infinito.
- Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
- ficcar lo viso per la luce etterna,
- tanto che la veduta vi consunsi!
- Nel suo profondo vidi che s’interna,
- legato con amore in un volume,
- ciò che per l’universo si squaderna:
- sustanze e accidenti e lor costume 21
- quasi conflati insieme, per tal modo
- che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
- La forma universal di questo nodo
- credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
- dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
- Un punto solo m’è maggior letargo
- che venticinque secoli a la ’mpresa
- che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo 22.
- Così la mente mia, tutta sospesa,
- mirava fissa, immobile e attenta,
- e sempre di mirar faceasi accesa.
- A quella luce cotal si diventa,
- che volgersi da lei per altro aspetto
- è impossibil che mai si consenta;
- però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
- tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
- è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
- Omai sarà più corta mia favella,
- pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
- che bagni ancor la lingua a la mammella.
- Non perché più ch’un semplice sembiante
- fosse nel vivo lume ch’io mirava,
- che tal è sempre qual s’era davante;
- ma per la vista che s’avvalorava
- in me guardando, una sola parvenza,
- mutandom’ io, a me si travagliava 23.
- Ne la profonda e chiara sussistenza
- de l’alto lume parvermi tre giri
- di tre colori e d’una contenenza;
- e l’un da l’altro come iri da iri 24
- parea reflesso, e ’l terzo parea foco
- che quinci e quindi igualmente si spiri.
- Oh quanto è corto il dire e come fioco
- al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
- è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
- O luce etterna che sola in te sidi,
- sola t’intendi, e da te intelletta
- e intendente te ami e arridi 25!
- Quella circulazion che sì concetta
- pareva in te come lume reflesso,
- da li occhi miei alquanto circunspetta,
- dentro da sé, del suo colore stesso,
- mi parve pinta de la nostra effige:
- per che ’l mio viso in lei tutto era messo 26.
- Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
- per misurar lo cerchio, e non ritrova,
- pensando, quel principio 27ond’ elli indige,
- tal era io a quella vista nova:
- veder voleva come si convenne
- l’imago al cerchio e come vi s’indova 28;
- ma non eran da ciò le proprie penne 29:
- se non che la mia mente fu percossa
- da un fulgore in che sua voglia venne 30.
- A l’alta fantasia qui mancò possa;
- ma già volgeva 31 il mio disio e ’l velle,
- sì come rota ch’igualmente è mossa,
- l’amor che move il sole e l’altre stelle
- “Vergine Madre, figlia del tuo stesso figlio,
- umile ma glorificata più di ogni altra creatura,
- termine fermo della Sapienza eterna,
- tu sei colei che nobilitò a tal punto
- la natura umana, che Colui che la creò
- non disdegnò di diventare anch’Egli creatura.
- Nel tuo ventre si riaccese l’amore
- grazie al cui calore è germogliato
- questo fiore nell’eterna beatitudine.
- Qui sei per noi fiaccola ardente
- di carità e, giù tra i mortali,
- sei fontana inesauribile di speranza.
- Donna, sei tanto grande e tanto potente che
- per chi [in Terra] desidera una grazia e non ricorre a te,
- il suo desiderio è del tutto inutile.
- Il tuo bene è così grande che non solo aiuta
- chi chiede, ma molte volte interviene
- prima che sia chiesto di spontanea volontà.
- In te misericordia, in te pietà,
- in te magnificenza, in te è presente
- tutto quello che esiste di buono nelle creature.
- Ora Dante, che dalla voragine infernale
- dell’universo fino a qui ha visto ad una ad una
- le anime separate dal corpo,
- ti supplica, per la grazia divina, che tanta virtù
- gli sia data, così che possa con gli occhi
- elevarsi sino all’ultima salvezza.
- Ed io, che mai desiderai di vedere Dio
- come ora lo desidero per lui, ti rivolgo
- tutte le mie preghiere, e spero che siano sufficienti,
- affinchè tu ogni suo impedimento umano
- gli dissolva con le tue preghiere,
- così che gli sia concessa la beatitudine.
- Ancora ti prego, o regina, che puoi
- ciò che desideri, che, dopo la mirabile visione,
- lui abbia ancora sane le sue inclinazioni.
- La tua protezione vinca le passioni terrene:
- vedi Beatrice insieme ad quanti altri beati
- per la mia supplica ti pregano!”
- Gli occhi preferiti e adorati da Dio.
- fisso nel pregante, dimostrarono ai beati
- quanto le preghiere devote le sono gradite;
- quindi si rivolsero verso la luce eterna,
- nel cui sguardo non si deve credere che creatura
- possa penetrare razionalmente con lo sguardo.
- Ed io, che al sommo di ogni desiderio
- mi avvicinavo, così come era giusto facessi,
- [sentivo che] il mio desiderio giungeva al suo culmine.
- Bernardo mi accennava sorridendo
- perchè io guardassi in alto; ma io ero
- già così prima ancora che mi invitasse:
- perché la mia vista, facendosi pura,
- sempre più entrava nel raggio
- della luce somma che è di per sé vera.
- Da qui in poi la mia vista fu più grande di quanto io possa raccontare,
- poiché la vista cede a tale visione, così come la memoria
- viene meno a tale eccesso conoscitivo.
- Come colui che fa un sogno, e svegliatosi
- gli rimane impresso l’effetto delle emozioni,
- ma non gli tornano alla mente i particolari,
- così sono io, poiché nel momento in cui
- termina la mia visione, mi rimane ancora nel cuore
- la dolcezza che nacque da essa.
- Come la neve al sole perde la sua forma;
- così al vento si perdevano
- nelle foglie leggere i responsi della Sibilla.
- O somma luce che ti elevi così tanto
- da ciò che capisce l’uomo, ridona alla mia mente
- qualcosa di quando mi sei apparsa,
- e rendi il mio parlare così potente,
- da essere in grado di lasciare ai posteri
- anche solo una minima parte della tua gloria;
- perché, se potrò ricordare ed esprimere
- almeno un poco in questi versi,
- sarà più facile intendere la tua grandezza.
- Io credo, per la forza del raggio divino
- che sopportai, che non ce l’avrei fatta,
- se i miei occhi si fossero spostati da lui.
- Questo raggio mi ricorda che per questo motivo
- fui più determinato a sostenere il mio sguardo,
- tanto che congiunsi il mio sguardo con l’essenza di Dio.
- Oh immensa grazia per cui io ebbi la presunzione
- di gettar lo sguardo attraverso la luce divina
- tanto che giunsi al limite delle mie facoltà!
- Nella sua profondità vidi che tutto ciò
- che nell’universo è separato e diviso
- che è qui raccolto in un unico punto con amore:
- le sostanze, gli accidenti e il loro rapporto
- sono quasi uniti insieme, ma quello che io dico
- è solo un semplice lume della luce intera.
- Sono certo di aver visto la forma universale
- del Creato, perchè, anche solo dicendo questo,
- sento di provare un godimento immenso.
- Un solo punto è oblio per me, più che i 25 secoli
- [che ci separano] dall’impresa degli Argonauti
- in cui Nettuno vide per la prima volta l’ombra di una nave.
- Così la mia mente, totalmente sospesa,
- mirava fissa, immobile ed attenta,
- e sempre di guardare era desiderosa.
- A quella luce si diventa tali che
- distogliere lo sguardo per un altro soggetto
- è impossibile e mai consentito;
- perciò il bene, cioè l’oggetto cui tende la volontà,
- è tutto raccolto in questa luce, e fuori da essa
- è imperfetto ciò che in lei è perfetto.
- Nonostante quello che io possa ricordare,
- ormai il mio parlare sarà più breve di quello
- di un lattante che ancora si nutre al seno della madre.
- Non perchè ci fosse nella luce divina
- che guardavo più di un solo aspetto,
- poiché quella è immutabile;
- ma in virtù della mia vista che acquisiva forza
- guardando quella luce, a me [sembrava] che
- mutasse la Trinità, mentre ero io che cambiavo.
- Nella limpida e profonda essenza
- della luce di Dio mi apparvero tre cerchi
- di tre colori e di una unica dimensione;
- e uno con l’altro sembrava il riflesso
- come due arcobaleni, e il terzo sembrava fuoco
- che spirasse da entrambi in egual maniera.
- O quanto è insufficiente il dire e debole
- rispetto all’idea! E questo che dico, rispetto
- a quello che vidi, è tanto che bisogna dire “nulla”.
- O luce eterna, che hai fondamento solo
- in te stessa, che sola ti comprendi,
- e da te compresa e comprendendoti, per te ardi di amore!
- Quel cerchio, che sembrava procedere
- in te come luce riflessa,
- contemplato dai miei occhi con molta attenzione,
- dentro di sè, con il suo stesso colore
- mi sembrava dipinto con un aspetto umano,
- perchè il mio sguardo era tutto concentrato in lui.
- Come un geometra che si concentra
- per la quadratura del cerchio, e non ci riesce,
- riflettendo sulla formula di cui avrebbe bisogno,
- così ero io a quella vista eccezionale:
- volevo vedere come l’immagine umana
- s’adeguasse al cerchio e come vi si collocasse;
- ma non era sufficiente il mio intelletto:
- se non che la mia mente venne percossa
- da un lampo così che avvenne ciò che Lei volle.
- All’immaginazione ora mancò la capacità,
- ma già il mio desiderio ed il volere erano soddisfatti,
- come una ruota che si muove di moto uniforme,
- dall’amor che muove il sole e le altre stelle.
1 Vergine Madre: è la prima delle tre antitesi su cui si apre l’invocazione della Madonna (vv. 1-39); Maria è al tempo stesso “vergine” (e priva del peccato originale) e “madre” del figlio di Dio. Tra le fonti privilegiate per questi appellativi, c’è tutta la tradizione della liturgia religiosa e, in particolare, della letteratura devozionale mariana.
2 figlia del tuo figlio: la seconda antitesi sottointende sempre il mistero dell’incarnazione di Dio in una donna vergine.
3 umile e alta: nella terza antitesi è riassunto il senso del ringraziamento della Vergine a Dio per la visita di Santa Elisabetta, riscontrabile nel Magnificat (Luca, I 46 ss.).
4 ‘l suo fattore: Cristo, cioè colui che ha creato Maria e poi si è incarnato in lei.
5 Nel ventre tuo si riaccese l’amore: grazie al tuo concepimento è rinato l’amore tra Dio e gli uomini, venuto meno nel momento della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre.
6 questo fiore: la rosa celeste dei beati.
7 qui: cioè nell’Empireo, dove si trovano Dante e San Bernardo.
8 sua disianza vuol volare sanz’ali: il suo desiderio cercherebbe di volare senza avere le ali.
9 Questa terzina conclude la prima parte dell’orazione di San Bernardo, in cui abbiamo l’elogio della Vergine e che prende la forma di una vera e propria preghiera d’intercessione alla madre di Cristo.
10 di virtute tanto: “di virtute” è genitivo partitivo dipendente da “tanto”.
11 ultima salute: ovviamente coincidente con Dio.
12 li affetti suoi: è fondamentale che dopo la visione di Dio Dante conservi intatte le sue facoltà e il ricordo della stessa per potersi cimentare nell’impresa di raccontarla.
13 son: l’utilizzo del tempo presente serve a sottolineare il perenne godimento della Vergine ad accogliere le preghiere devote.
14 l’occhio tanto chiaro: Dante ribadisce un suo tipico avvertimento, e cioè che gli uomini (e neanche gli angeli) possono pensare di penetrare completamente con il loro sguardo nel mistero della volontà di Dio.
15 l’ardor del desiderio in me finii: questo verso può avere una duplice interpretazione. Per alcuni interpreti significa “sentii esaurirsi l’ardore del mio desiderio”; per altri invece “sentii che il mio desiderio giungeva al culmine”. Se si accetta la prima lezione bisogna intendere che Dante ha voluto anticipare l’appagamento della beatitudine dovuto alla visione divina, se si prende la seconda bisogna pensare che il poeta sottolinei solo il crescere del suo desiderio di contemplare Dio fino al suo limite massimo.
16 Questa terzina spiega il motivo per cui da questo momento in poi le parole e la memoria di Dante non potranno essere più così fedeli a ciò che è accaduto durante la sua esperienza ultramondana: la vista e la memoria umane non sono capaci di adeguarsi in tutto e per tutto alla straordinarietà della rivelazione divina.
17 Qual è colui [...] da essa: In queste due terzine Dante utilizza una similitudine per spiegare la sua condizione: come quando si sogna ed al risveglio si ha un vago ricordo, non dettagliato, di ciò che si è sognato, così lui, dopo aver assistito alla visione di Dio, ha in sè il ricordo sfumato della gioia infinita che ha provato, ma non i particolari del momento.
18 disigilla: dal latino de-sigillare, indica non solo “scogliere”, ma soprattutto “perdere la propria forma”.
19 Anche questa similitudine presenta in questa terzina vuole indicare l’indeterminatezza, la vaghezza del ricordo di Dante in merito alla sua visione. La Sibilla cumana, cui qui si allude, è una figura mitologica che, ispirata dal dio Apollo, emetteva profezie criptiche ed oscure, scrivendole sulle foglie. Si ritrova sia nelle opere classiche di Virgilio ed Ovidio (l’Eneide e le Metamorfosi) sia in testi moderni (come la Waste Land di T. S. Eliot).
20 Dante qui spiega che la contemplazione insistita della luce divina lo ha aiutato a sostenere la fatica, in quanto questa luce amplifica le doti umane; se il poeta avesse, anche solo per un attimo, distolto lo sguardo, le forze gli sarebbero venute meno.
21 sustanze e accidenti e lor costume: ripresa di termini filosofici tipici dell’aristotelismo e della Scolastica: la “sostanza” è ciò che esiste in sé, gli “accidenti” sono le proprietò di un oggetto o di un ente non direttamente connesse con la sua “sostanza, mentre il “costume” costituisce l’interrelazione tra i due concetti.
22 Terzina complessa, che stringe insieme, con notevole abilità, due diversi concetti. Da un lato c’è l’oblio che Dante prova rispetto alla sua stessa esperienza mistica; dall’altro - per rendere l’idea nel lettore - c’è il paragone con la distanza che separa il suo tempo dalla spedizione degli Argonauti, i primi che solcarono il mare con un’imbarcazione, suscitando addirittura la meraviglia del dio degli abissi Nettuno. Nel mito classico, gli Argonauti, guidati da Giasone, partirono dalla Grecia in direzione della Colchide (Mar Nero) per recuperare il famigerato vello d’oro. La vicenda degli Argonauti traspone sul piano della narrazione le prime esplorazioni via mare dei marinai greci
23 Non perchè [...] si travagliava: Queste sono le prime due terzine in cui Dante cerca di rappresentare la Trinità e il mistero della coesistenza di tre entità (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) in una sola.
24 iri a iri: nel Medioevo si credeva che nel momento in cui sorgevano due arcobaleni, uno fosse il riflesso dell’altro. Il poeta esprime lo stesso concetto anche nel dodicesimo canto del Paradiso.
25 Dante celebra qui la Trinità e l’unità divina, rimandando al Padre (“sola t’intendi”, in quanto Dio è dotato di autocomprensione, “da te intelletta”, in quanto Cristo partecipa della stessa natura del Padre, e glorificata dallo Spirito Santo).
26 In questa terzina Dante prova a spiegare il mistero della natura umana e divina di Cristo, attraverso un’immagine assai ardita: contemplando Dio, al poeta pare di intravedere nella circonferenza un volto umano (“nostra effige”, v. 131), su cui egli fissa il proprio sguardo. Ma è un’immagine irresolvibile, come Dante stesso spiega alla terzina successiva, dicendo che una piena comprensione del mistero equivarrebbe a trovare la quadratura del cerchio (vv. 133-135).
27 principio: il rapporto tra il diametro e la circonferenza, espresso dalla costante π (“pi greco”).
28 indova: neologismo dantesco formato da in + dove per “collocarsi, trovare luogo”.
29 penne: l’immagine che Dante utilizza per significare che il suo ingegno (le “penne”) non sa restituire sulla pagina l’effetto della folgorazione con cui DIo gli concede l’ultimo balzo sovralogico per arrivare all’intuizione della Verità suprema.
30 in che sua voglia venne: così che avvenne quella cosa che il volere divino volesse che avvenisse: la visione del mistero.
31 volgeva: “placava, diminuiva”. Il soggetto è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, cioè Dio.