Il 7 novembre 1960 fu eletto presidente degli Stati Uniti d’America il senatore democratico John Fitzgerald Kennedy. Non si trattò di una vittoria elettorale clamorosa: il giovane presidente (era nato nel 1917, da una famiglia di origine irlandese) riuscì ad arrivare alla Casa Bianca, grazie ad un pugno di voti di vantaggio rispetto a quelli ottenuti dal candidato repubblicano, Richard Nixon. Kennedy avrebbe goduto di grande popolarità, e sarebbe diventato ben presto un simbolo dei diritti civili, non solo del popolo americano. Già durante la campagna elettorale, aveva fortemente impressionato l’opinione pubblica, parlando della necessità di scoprire una “nuova frontiera”, ovvero della necessità di rimuovere le cause che impedivano alle fasce degli emarginati di godere appieno del diritto all’uguaglianza, alla libertà politica e al benessere. Kennedy avrebbe ripreso questi toni nel discorso di insediamento, scandalizzando i reazionari, ma ottenendo consensi negli ambienti progressisti di ogni parte del mondo. Gli Stati Uniti, d’altronde, al momento della sua elezione erano in una fase di difficoltà economica, malgrado l’imponente apparato produttivo di cui disponevano. Ciò aveva ulteriormente accentuato gli squilibri interni e soprattutto aveva esasperato i conflitti razziali. A fomentare le disparità e l’ostilità tra le varie etnie contribuiva il cosiddetto “maccartismo”. Tale termine deriva da Joseph McCarthy (1908-1957), un politico repubblicano, che si era fatto promotore di una violenta campagna anticomunista. Il clima da "caccia alle streghe" che ne seguì viene ancora oggi ricordato come uno dei più cupi della storia americana: bastava difatti che un individuo fosse sospettato di simpatizzare per i “rossi” (e questo accadeva soprattutto ai danni dei “diversi”, ossia genti di colore, emigranti, artisti, ecc.), per essere praticamente escluso dalla vita civile.Il maccartismo, con l’esaltazione dell’americano Wasp (White, Anglo-saxon, Protestant: ovvero di razza bianca, anglosassone e protestante), fu una delle ragioni che finì per deprimere ogni forma di giustizia sociale, contribuendo a incoraggiare in quel periodo le discriminazioni razziali, soprattutto ai danni dei neri, ai quali era riservata una forte disparità sociale (per esempio nelle scuole e nelle università era fortemente limitato il loro accesso). A partire dagli anni Cinquanta, i neri avevano tentato di far valere i loro diritti, organizzandosi in due movimenti principali: il primo cercava di collegarsi con le forze liberali favorevoli ad un’integrazione dei neri nella società americana, ed era capeggiato dal pastore protestante Martin Luther King (1929-1968). Su altre posizioni, certamente più radicali, si attestava il movimento che propugnava una contrapposizione al potere dei bianchi, e che vide emergere nel gruppo dei “Black Power” il leader Malcom X (1925-1965). Maggior successo ebbe il movimento di King, che basandosi sui valori della non violenza e della moderazione riuscì a far breccia in molti settori dell’America progressista. La richiesta di riforme da parte dei neri sarebbe stata certamente accolta se la presidenza Kennedy non fosse stata tragicamente interrotta da forze ostili all’emancipazione sociale. Nella cittadina di Dallas, il 22 novembre del 1963, un tale Lee Oswald troncò a colpi di arma da fuoco la vita del presidente Kennedy. La dinamica dell’attentato e soprattutto i mandanti non sono mai stati chiaramente identificati; lo stesso Lee fu a sua volta ucciso nel carcere di Dallas a poche ore dall’arresto.
La morte di Kennedy inaugurò una serie di omicidi che avrebbero colpito le personalità più impegnate sul fronte dell’integrazione razziale. Sotto i colpi dei sicari caddero Robert "Bob" Kennedy (1925-1968), fratello minore di John, che si apprestava a candidarsi alla presidenza, Martin Luther King e lo stesso Malcom X. Quest’ultimo stava per dare un’impronta più moderata al suo movimento con aperture verso le correnti democratiche dei bianchi. Il programma riformista di Kennedy fu ripreso, sebbene in modo parziale, dal suo successore Lyndon Johnson (1908-1973), sotto la cui presidenza fu approvata la legge che poneva fine alle limitazioni riguardo l’esercizio del voto della popolazione nera. Questa riforma tuttavia non attenuò le tensioni sociali. Nel periodo 1964-68 nei quartieri neri di diverse grandi città americane scoppiarono tumulti che esprimevano la solita, disperata richiesta di libertà e giustizia. Ad aggravare in quegli anni l’instabilità sociale degli USAcontribuì la guerra del Vietnam (iniziata sotto la presidenza Kennedy doveva concludersi nel 1973, dopo estenuanti trattative diplomatiche), causa del moltiplicarsi dei movimenti di opposizione, che videro tra i protagonisti soprattutto i giovani.
Bibliografia essenziale:
- M. L. King, Il sogno della non violenza, Milano, Feltrinelli, 2008.
- G. Kolko, I limiti della potenza americana, Torino, Einaudi, 1975.
- G. Procacci, Storia del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2000.
- A. M. Schlesinger, I mille giorni di John F. Kennedy, Milano, Rizzoli, 1992.