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Calvino dalle "Fiabe italiane" a "I nostri antenati"

Introduzione Fiaba e genere cavalleresco

Quando pubblica Il visconte dimezzato, nel 1952, Italo Calvino si trova in un passaggio difficile della sua vita di scrittore: ormai affermatosi come autore ed editore per così dire “intellettuale”, è alla ricerca di un’opera che, dopo la felice sorpresa del Sentiero dei nidi di ragno (1947) e la multiforme ispirazione dei Racconti (poi raccolti in un unico volume nel 1958), ne consolidi definitivamente la figura di “autore”. Da questo punto di vista, neanche il primo romanzo della trilogia de I nostri antenati (1960), che pure godrà di lunga fortuna in futuro, riesce a imprimere una svolta decisiva alla sua carriera.

Il vero atto di nascita del Calvino “fantastico” dev’essere quindi riconosciuto nel lungo lavoro editoriale svolto dallo scrittore per preparare il volume delle Fiabe italiane, che Giulio Einaudi gli aveva affidato e che uscirà nella collana dei “Millenni” nel 1956. Per due anni Calvino si cimenta con l’enorme repertorio folclorico della tradizione italiana (il folklore è appunto l’insieme di usi,  costumi, tradizioni e culture di un determinato popolo o area geografica) nel tentativo di comporre una sorta di atlante letterario delle fiabe popolari. In questo confronto serrato Calvino, che fin dal Sentiero dei nidi di ragno aveva mostrato una certa predisposizione di “favolista” (questa ad esempio l’opinione dell’epoca di Delio Cantimori, riportata in Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 707), ha modo di mettere in discussione la sua ostinazione al realismo (che in quegli anni doveva portare ai tentativi abortiti di romanzo della Collana della regina e dei Giovani del Po) e di entrare in contatto con il mondo metamorfico e metaforico delle fiabe. Sono questi due caratteri, infatti, che più sembrano interessare lo scrittore: la metamorfosi gli appare come uno splendido principio di animazione narrativa, capace di trasformare una semplice situazione in storia da sviluppare; la metafora risulta invece quel procedimento retorico che consente di prendere sul serio le fantastiche trasformazioni del mondo delle fiabe e di leggervi trasposte le principali questioni del mondo contemporaneo.

Come racconterà nella Lezione americana dedicata alla Rapidità, non era il legame alla tradizione, né il richiamo nostalgico all’infanzia dell’uomo che Calvino apprezzava delle fiabe, bensì le loro virtù strutturali e stilistiche, la logica essenziale e la qualità sintetica che ne fanno degli strumenti di conoscenza formidabili (caratteri messi in luce dalle illuminanti ricerche di Vladimir Propp nella sua Morfologia della fiaba, e i cui primi studi sono tradotti in Italia a partire dagli anni Cinquanta). È anche in virtù di queste suggestioni che, appena terminato il lavoro di selezione e riscrittura delle Fiabe italiane, Calvino ritrova la spinta a scrivere qualcosa di originale e compiuto. Infatti, anche se Il visconte dimezzato, con la storia del visconte Medardo di Terralba rimasto diviso in due metà – il Buono e il Gramo – a causa di una cannonata ricevuta, aveva già messo alla prova il meccanismo del paradosso come motore della narrazione, sarà Il barone rampante, pubblicato nel 1957, a proclamare Calvino finalmente “scrittore” (e “scrittore per tutti”, se si pensa che questo libro arriva addirittura a scalzare I promessi sposi dalle letture per la scuola). La vicenda di Cosimo Piovasco di Rondò, che per ribellione ai genitori si rifugia su un albero e promette di non scenderne mai più, è un distillato dei temi cruciali di tutta l’opera calviniana, innestati su uno stratagemma narrativo che tiene avvinto il lettore, sempre curioso di scoprire fino a che punto la forza di volontà del protagonista gli permetterà di mantenere la promessa.

Attraverso una semplice trovata dell’immaginazione Calvino dà avvio a una vera e propria “sensibilizzazione della sfera visiva” (F. Serra, Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 178): Cosimo, dall’alto, osserva la vita della propria famiglia e del mondo circostante, e solo da lì riesce a vederli completamente e pure a comprenderli. È quello che Cesare Cases (rielaborando una formula di Friedrich Nietzsche di Al di là del bene e del male del 1886) definì il pathos della distanza” (Postfazione a I. Calvino, Il barone rampante, Milano, Mondadori, 2011) e che rimarrà uno dei tratti caratteristici della poetica di Calvino, sempre intento a trovare la giusta misura nell’osservazione della realtà. L’irresistibile fascino dell’uso letterale della metafora trova poi un’ulteriore applicazione ne Il cavaliere inesistente (1959), il più cerebrale dei romanzi della trilogia, tanto da fornire i primi spunti alla futura vena metaletteraria di Calvino. La figura di Agilulfo, che tiene in piedi la propria corazza per sola forza di volontà, richiama alla mente l’universo ariostesco dell’Orlando furioso (che Calvino “tradurrà” nel 1970), fatto di viaggi, duelli e agnizioni (e cioè gli elementi tipici di molte narrazioni fiabesche). La ricerca intrapresa da Agilulfo, per riconquistare il proprio titolo di cavaliere messo in discussione da Torrismondo, oltre a essere la ricerca di qualcosa che possa sopperire alla mancanza del corpo, diventa anche la metafora di un’altra ricerca, quella di una scrittura realista che Calvino non riesce più a praticare, per un dissidio sempre più profondo con la Storia e con la realtà (come lo scrittore confessa più volte nel corso di quegli anni).

Nate come passatempo, prose buone per svagarsi nelle pause dalle grandi riflessioni su cui si era momentaneamente incagliata la sua vena creativa (ovvero, l’inesausta ricerca di una letteratura politicamente impegnata), queste tre “favole” moderne si rivelano progressivamente come il frutto più maturo del Calvino degli anni Cinquanta. Nello stesso decennio lo scrittore matura il definitivo distacco dall’ortodossia comunista e I nostri antenati dimostrano metaforicamente come, più della seriosa trilogia del boom economico (composta dai racconti La formica argentina, 1952, e La nuvola di smog, 1958, e dal romanzo La speculazione edilizia del 1963), sia la parola felice dell’immaginazione a parlare direttamente al presente.

 

Bibliografia esssenziale:

 

I. Calvino, Nota 1960 a I nostri antenati, Torino, Einaudi, 1960.
F. Serra, Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006.
S. Perrella, Calvino, Roma-Bari, Laterza, 1999.
M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996.
V. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966.