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“Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare” di Giacomo Leopardi: riassunto

Introduzione

 

Torquato Tasso fu un personaggio estremamente caro ai romantici, che videro in lui un modello poetico ed esistenziale. E particolarmente amato fu anche da Leopardi, che, oltre ad andare a visitare la sua tomba durante il viaggio a Roma del 1822-1823, lo cita in numerosi passi dello Zibaldone e gli dedica due intere strofe della canzone Ad Angelo Mai, vero affresco della filosofia della storia dell’autore. Oltre a ciò Leopardi lo rende intestatario anche di un’operetta morale, inaugurando con lui una galleria di personaggi celebri e realmente esistiti (come Parini, Ruysch, Stratone, Copernico, Colombo, Gutierrez, Plotino e Porfirio) a cui affida la sua voce e i principi ideologici che animano il libro di prose.

 

Riassunto

 

La cornice del dialogo è il carcere di Ferrara, in cui il poeta è rinchiuso per presunta infermità mentale.

Imprigionato dietro le sbarre, a Tasso non rimane altro intrattenimento che il ricordo, l’immaginazione e il sogno. Nella solitudine della prigione gli appare il Genio familiare, uno spirito che abitualmente visita la cella del poeta e con cui Tasso si intrattiene dialogando. Questa situazione di soliloquio interrotto da una presenza immaginaria Leopardi la riprende da Socrate, descritto in colloquio con uno spirito durante la sua reclusione. Il primo tema dell’operetta sono le donne, che stimolano la fantasia e l’immaginazione degli uomini. Tasso confida al Genio la nostalgia per la sua amata Leonora e rimpiange il tempo in cui era giovane, pieno di forza e di illusioni. Il Genio gli propone allora di fargliela comparire in sogno, facendo riflettere il poeta sul fatto che la lontananza e l’immaginazione sono condizioni essenziali per ammantare di bellezza l’oggetto desiderato - questo concetto, tipicamente romantico, è sviluppato anche nella poesia Alla sua donna. I due riflettono così sul fatto se la donna sognata sia migliore di quella reale. Alla protesta di Tasso di ricevere un sogno in cambio della vera Leonora il Genio risponde:

Che cosa è il vero? [Tasso] “Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io”. [Genio] “Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai”. [Tasso] “Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?” [Genio] “Io credo”.

E poco più avanti finalmente Tasso, con amarezza e disincanto, conclude:

per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare.

Si introduce in questo modo la questione del desiderio che, secondo la famosa teoria del piacere sviluppata nello Zibaldone, e che in questa operetta trova una sapiente sintesi, è per sua natura irraggiungibile. In base a quanto sostiene Leopardi, infatti, il piacere è sempre un evento passato o una speranza futura. Esso è, insomma, una sensazione di cui nessuno può fare effettiva esperienza, affermazione che ricorre in modi altrettanto espliciti nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello. Ma in aggiunta a quella più breve operetta qui Leopardi inserisce anche il tema della noia e del dolore, riprendendo altri spunti teorici che riemergono in diversi momenti della sua opera, in particolare nei Canti. La noia e il dolore sono le sole esperienze consentite all’uomo durante la vita. La noia è un desiderio puro, che non si rivolge a nessun oggetto: è la percezione della vita non alterata da alcun sentimento. Leopardi nell’operetta la paragona all’aria, per la capacità di infiltrarsi ovunque, essendo “tenuissima, radissima e trasparente”. Il suo peso è per l’uomo insopportabile, tanto che secondo l’autore qualsiasi condizione è da preferirle, persino uno stato di travaglio. Il dolore è invece la condizione necessaria per poi tornare, una volta che esso scompare o si interrompe, a provare felicità, che altro non è che il sollievo dallo stato di sofferenza (“piacer figlio d’affanno” si legge ne La quiete dopo la tempesta). I modi migliori per placare la noia sono gli espedienti per distrarsi, come l’“oppio”, il “vino” e lo stesso “dolore”. Quest’ultimo, sostiene il Genio, “è il più potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera”.

Lo spirito consola anche Tasso sul tema della solitudine: egli gli spiega come la solitudine non sia da disprezzare perché ha il merito di farci tornare l’amore per la vita e la voglia di rientrare “nella società degli uomini”. Non solo, essa ha la capacità di “ringiovanire l’animo” e di far ritornare la nostra immaginazione fervida, dunque di riavvicinarci alla fantasia e alle illusioni della gioventù. Dopo queste parole il Genio, vedendo che il poeta sta per addormentarsi, dolcemente si accomiata e quando Tasso gli chiede dove abita lo spirito, tra l’ironico e il sibillino, risponde: “in qualche liquore generoso” 1

1 Come leggiamo nello Zibaldone, che il vino “è il più certo e (senza paragone) il più efficace consolatore” (14 novembre 1820).