Introduzione
Non è un caso che il Dialogo di Tristano e di un Amico sia l’ultimo testo delle Operette morali. Esso, infatti, rappresenta una sorta di summa del pensiero di Leopardi, che lo espone attraverso la voce del personaggio di Tristano, il cui nome, oltre a rimandare al celebre protagonista del romanzo medievale Tristano e Isotta, si riconduce per paretimologia (ovvero, tramite un’etimologia fasulla) alla parola “triste” (dall’aggettivo latino tristis, triste), quale è appunto la filosofia del personaggio. Ma la posizione di coda nell’indice delle Operette morali risulta significativa anche perché questa prosa si riallaccia per struttura e temi al Dialogo di Timandro e di Eleandro, ossia all’operetta che chiudeva l’edizione del 1827. Cinque anni più tardi, Leopardi ha incrementato il numero delle prose del suo libro e ha aggiunto questa nuova conclusione, senz’altro più completa e potente, capace di rispecchiare gli ultimi drammatici sviluppi del suo pensiero e in grado di preannunciare la forza poetica e filosofica dell’estrema stagione leopardiana, in particolare la Palinodia al Marchese Gino Capponi (1835), in cui ritroviamo la stessa tecnica della finta ritrattazione, e La ginestra o il fiore del deserto (pubblicata per la prima volta nel 1845). Come nel Dialogo di Timandro anche qui l’alter ego di Leopardi si imbatte in un altro personaggio che non assume vere e proprie caratteristiche narrative né ha parte attiva nel dialogo, ma rimane confinato nel ruolo di far parlare il protagonista, offrendogli il destro per un’esposizione dei nuclei teorici che stanno alla base della sua argomentazione. C’è chi, tra i critici, ha scorto dietro questo Amico gli intellettuali fiorentini della «Antologia», ossia quei moderati progressisti da cui Leopardi andò sempre più distanziandosi nel corso degli anni per abbracciare posizioni ideologiche più radicali e coraggiose.
Riassunto
Tristano ritiene che non solo il suo tempo sia caratterizzato da un’infelicità solida ed evidente, ma che ogni uomo sia ontologicamente infelice. Non può perciò accettare nessuna fiducia nel progresso né, tanto meno, alcun tipo di esaltazione dell’epoca attuale. Del resto, come è noto, proprio le Operette portano avanti una feroce battaglia contro le teorie antropocentriche in favore di un relativismo che ridimensiona l'intera condizione umana, in particolar modo quella presente, che si caratterizza solo per una superba considerazione di sé da parte delgi uomini. Così Tristano, in aperta polemica con l’Amico, all’ottimismo spiritualistico della cultura della prima metà dell’Ottocento 1 oppone il suo lucido ed eroico pessimismo ontologico. L’arma con cui egli fa ciò in questa operetta è senz’altro quella dell’ironia, attraverso la quale il protagonista finge di aver cambiato idea e di ritornare sui propri passi per abbracciare le tesi dell’Amico. La materia di scontro è l’ultimo libro di Tristano (palese è il riferimento alle stesse Operette morali, conosciute dal pubblico nell’edizione del 1827). Già dalle prime battute si può notare come il piglio ironico non esiti a divenire sarcastico:
Amico: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano: Sì, al mio solito.
Amico: Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano: Che v'ho a dire? Io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico: Infelice sì forse. Ma pure alla fine...
Tristano: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico.
Attraverso questa finta ritrattazione Leopardi smonterà una dopo l’altra le convinzioni ottimistiche e antropocentriche dell’Amico, vero laudator della propria epoca. Tristano gli farà ammettere che l’infelicità è una condizione evidente e innegabile dell’uomo e respingerà, con il riso prima e con lo sdegno poi, le accuse di essere approdato a simili convinzioni a causa della propria sfortunata condizione fisica. Successivamente deriderà la fiducia nel progresso dei contemporanei, che egli giudica vili e più deboli degli antichi, i quali erano magnanimi e anche fisicamente più forti, sia nel corpo che nello spirito. Il protagonista espone così un pensiero organico, che ha come fondamento l’infelicità ineluttabile dell’uomo: infelicità che non può essere definita, come tenta invece di fare l’Amico, né fenomeno accidentale né condizione trascurabile.
A supporto della propria teoria Tristano richiama in libera alternanza passi delle Sacre Scritture e dei poemi omerici. Il suo pessimismo, che preferisce la morte alla vita 2, e che per nulla si scompone di fronte all’incomprensione che i contemporanei riservano al suo libro, si potrebbe definire “eroico”, già in linea con quello della Ginestra. Dopo la finta accettazione di emendare la propria opera per divulgarla tra il pubblico, l’ironia lascia spazio all’attacco diretto e a un tono di invettiva schietto e crudo, in cui si difende il pensiero consegnato al libro delle Operette 3. Qui l’autore ha cercato coraggiosamente di indagare la drammatica essenza della realtà e non di rifuggirla vigliaccamente 4. Tristano difende con forza il suo intento di aver analizzato la condizione dell’uomo alla luce dell’effettiva fragilità che lo caratterizza perché, solo in seguito a una onesta valutazione e a uno sguardo consapevole sulla propria natura, si potrà accedere alla nobile consolazione del riso e della pietà.
1 Nella fattispecie le “magnifiche sorti e progressive” irrise al v. 51 della Ginestra.
2 Si veda quest’amara battuta di Tristano: “In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire”.
3 Il tono di Tristano da ironico comincia a farsi amaramente caustico quando egli risponde che forse sarebbe meglio bruciare il libro, dato che non rispecchia più le sue idee: “Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario”. Il gesto di bruciare le proprie opere è un topos classico: il poeta Virgilio avrebbe infatti chiesto di distruggere l’Eneide, che egli non considerava compiuta.
4 È stato notato che questa scelta avvicna i toni di quest'operetta a quelli senza speranza di A se stesso.