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Levi, "Cristo si è fermato a Eboli": riassunto e commento

Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo autobiografico di Carlo Levi pubblicato da Einaudi nel 1945, in cui viene raccontata l’esperienza del confino in Lucania per motivi politici subito dall’autore tra il 1935 e il 1936. Il protagonista, giunto nel paesino di Aliano (che nel libro prende il nome di Gagliano), deve confrontarsi con la profonda lontananza della campagna lucana dal mondo moderno e dallo sviluppo culturale e tecnologico della società: il titolo, modellato su un proverbio del luogo, identifica appunto la civiltà con "Cristo", e spiega che quest'ultimo si è fermato ad Eboli, parecchi chilometri più a nord di questo mondo arcaico. Si tratta di un confronto tra un giovane intellettuale, scrittore e pittore, esponente della buona borghesia torinese e coinvolto politicamente nella lotta al fascismo e vittima delle persecuzione del regime (Carlo Levi fa parte del movimento “Giustizia e libertà”, fondato nel 1928 da Carlo Rosselli), e una realtà contadina e rurale legata ancora a tradizioni pagane, superstizioni e stregonerie varie, e succube di una borghesia parassitaria, che vive sulle spalle di gran parte della popolazione locale, priva di qualsiasi strumento di ribellione e riscatto.

 

Gli abitanti di Gagliano colpiscono subito la fantasia dello scrittore, che, mettendo a frutto la sua laurea in medicina, cerca di sollevare le difficili condizioni di vita dei contadini, falciati dalle malattie e dalla malaria. L'attenzione antropologica dell'autore per questa realtà così distante dal suo mondo di provenienza si mescola con la narrazione dei mesi di confino. Levi descrive le figure più emblematiche che incontra (dalla domestica Giulia, che svolge anche la professione di "strega", fino al parroco don Trajella e al "sanaporcelle", a metà strada tra un mago e un veterinario) e fissa anche alcuni caratteri di fondo della cosidetta "questione meridionale". Per il contadino lucano, infatti, lo Stato unitario è un'entità astratta e sconosciuta, spesso visto come un nemico terribile e incomprensibile, che impone la sua presenza e al quale bisogna solo rassegnarsi:

 

[...] Lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono [...] La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Se il narratore è attratta dal mondo contadino, egli prova ribrezzo per i pochi rappresentanti della classe borghese, cui imputa le disastrate condizioni di vita del paese. Questi personaggi, spesso collusi col potere fascista, sono descritti in maniera caricaturale, insistendo sulle loro manie comportamentali o sulla loro miseria etica (“gentucola meschina, oziosa, capace solo di risentimenti squallidi e sorretta da una protervia occhiuta”, come spiega Vittorio Spinazzola in Letteratura e popolo borghese, p. 279). Al tempo stesso, il narratore ha modo di osservare con cura il mondo fisico di Gagliano, concentrandosi, con l'occhio del pittore di professione, sia sui tratti fisici dei personaggi popolari, sia sul paesaggio, aspro e selvatico, della campagna lucana (che Levi riproduce in molte sue tele del periodo).

 

Per tutti questi motivi, Cristo si è fermato ad Eboli non è solo un romanzo autobiografico, ma anche un'attenta analisi storico-politica sul Meridione e sulle ragioni della sua cronica arretratezza; non a caso, il libro venne inizialmente pubblicato da Einaudi in una collana di saggistica, suscitando un dibattito acceso anche in Parlamento. Se per Italo Calvino il protagonista “è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d’un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e più elementari” (“Galleria”, 3-6, 1967, pp. 237-40), l'intento di Levi è quello di unire narrazione romanzesca e messaggio etico-politico da destinare all'Italia appena uscita dalle devastazioni del secondo conflitto mondiale. Significativa è allora la conclusione del romanzo: Levi, sulla strada del ritorno dal confino grazie all'amnistia per il trionfo nella guerra d'Etiopia, riflette sulla sua esperienza come uomo e come cittadino (pp. 219-223):

 

Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno [...] Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai vecchi programmi socialisti, 'rifare l'Italia'. Altri non vi vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù che una democrazia liberale avrebbe un po' per volta eliminato. Altri sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del proletariato avrebbe senz'altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto, per l'Italia del Nord, e studiavano le provvidenze per ovviare, dall'alto, a questo doloroso dato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe potuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico, e provvidenziale […] e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l'ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa. Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato.