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Nerone: dal principato all’incendio di Roma

Caratteri generali

 

Durante il principato di Nerone arrivano ad esasperazione le contraddizioni intrinseche all’assetto dinastico e allo spirito della riforma della res publica voluti da Augusto: non solo si assiste al pressoché completo annientamento dell’aristocrazia patrizia vicina alla domus imperiale, vittima del proprio prestigio e dell’eccessiva esposizione nei meccanismi di successione, ma si accentua anche la natura inevitabilmente assolutista della carica, nonostante premesse ispirate alla più sincera volontà di cooperazione con il Senato, in particolare grazie all’influenza di Seneca durante il cosiddetto quinquennium Neronis.

La drammatica crisi istituzionale dell’impero, causata dalla scarsa abilità diplomatica e da alcuni decisivi errori strategici del giovane sovrano, travolge prima Nerone stesso, dichiarato hostis publicus (cioè “nemico pubblico”) e costretto al suicidio, e quindi tutti i territori dell’ecumene romana, culminando in una guerra civile che vedrà il succedersi, nel giro di un anno (aprile 68 – luglio 69 d.C.) di quattro imperatori: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano. Tutti costoro dovranno la loro nomina all’esercito: tre ai legionari di stanza in provincia, uno ai pretoriani. Emerge per la prima volta in maniera eclatante l’incapacità della classe politica romana di stare al passo con gli eventi: occorrerà dunque da qui in poi affidarsi sempre più per la gestione del potere all’apparato militare, ai centurioni e ai quadri intermedi dell’ufficialità 1.

La fase finale della reggenza neroniana, caratterizzata dal ricorso sistematico (e più o meno giustificato) ai processi per alto tradimento, da congiure e feroci repressioni, nonché il suo esito catastrofico, hanno pesantemente condizionato l’immagine postuma dell’ultimo esponente della dinastia giulio–claudia, soprattutto nel giudizio della storiografia di parte senatoria, contemporanea o di poco successiva agli eventi. È toccato ai moderni farsi carico di una rivalutazione dell’operato di Nerone, contestualizzandone la deriva assolutista all’interno delle ambigue dinamiche politiche che caratterizzavano l’establishment imperiale e i rapporti fra princeps e Senato, e mettendo senz’altro in luce i suoi meriti, in particolare per quanto attiene alla politica monetaria e fiscale, e, almeno in parte, alla politica estera.

 

L’ascesa al trono

 

L’ascesa al trono di Nerone, divenuto Cesare nel 54 d.C. alla giovane età di sedici anni (il più precoce dei Giulio–Claudii), fu il coronamento di un’accorta strategia dinastica, il cui merito va senz’altro attribuito alla madre, Agrippina, sostenuta da due potenti alleati: Pallante, liberto dell’imperatore Claudio e suo segretario a rationibus (responsabile cioè delle finanze imperiali), e Lucio Vitellio, ter consul nel 49 d.C., ascoltatissimo consigliere, nonché abilissimo uomo di corte 2. Tuttavia, un’altra storia si sarebbe scritta, se un evento, per certi versi imponderabile, non avesse segnato drammaticamente gli ultimi anni di regno del predecessore di Nerone: il plateale adulterio, seguito da una scandalosa simulazione di nozze, tra Messalina 3, terza moglie di Claudio, e il giovane e nobilissimo Caio Silio, consumatosii mentre il princeps si trovava nella sua residenza di Ostia (47 d.C.). La ferocerepressione che ne seguì, che portò all’epurazione di molti esponenti delle più importanti famiglie aristocratiche, nonché di molti ufficiali e cortigiani, determinò un vero e proprio terremoto all’interno della casata imperiale; nonostante Claudio avesse promesso ai pretoriani che non si sarebbe più risposato, la fine di Messalina riaprì una spietata corsa alla sua successione al fianco dell’imperatore. A prevalere fu infine Agrippina, forte oltre che delle sopra menzionate alleanze anche dell’assai prestigiosa discendenza 4.

Il carisma e il fascino che la donna seppe sin da subito esercitare sull’anziano marito produssero risultati immediati: nominata Augusta già nel 50 d.C. (un onore che Livia, autorevole e potentissima moglie di Ottaviano, ottenne solo dopo la morte di quest’ultimo), riuscì a far adottare dal princeps il figlio di primo letto, Lucio Domizio Enobarbo, e infine a farlo sposare ad Ottavia, figlia di Claudio e di Messalina (53 d.C.). Veniva così automaticamente estromesso dalla successione Britannico, figlio naturale di Claudio (e fratello di Ottavia), il cui destino era così segnato: due anni dopo (55 d.C.) verrà fatto eliminare dal nuovo sovrano. Accadeva così che, all’indomani della morte dell’imperatore, causata da un avvelenamento da funghi, forse ordinato da Agrippina stessa, nessun dubbio vi fosse sull’identità del nuovo signore di Roma: con il titolo di Tiberio Nerone Claudio Cesare Augusto, Lucio Domizio Enobarbo fu nominato imperatore il 13 ottobre del 54 d.C.

  

Il Quinquennium Neronis e l’influenza di Agrippina

 

I primi anni di reggenza del giovane Cesare sono unanimemente ricordati come i più felici e floridi del suo principato. L’insofferenza di Nerone verso le pesanti interferenze della madre, all’apice del suo potere e della sua influenza a corte, non si era ancora manifestata compiutamente; ulteriore beneficio derivava al princeps dalla presenza di due esperti e avveduti tutori, che Agrippina aveva scelto per affiancarlo: il senatoree filosofo Lucio Anneo Seneca e il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro. Entrambi provinciali (il primo, originario dell’odierna Cordova in Spagna, il secondo proveniente dalla Gallia Narbonense), questi consiglieri seppero fornire delle linee guida di governo che avrebbero influenzato profondamente la concezione stessa del principato. Seneca in particolare, intellettuale di grande reputazione perlomeno dall’inizio del regno di Caligola, svolse una duplice funzione: si impegnò da un lato in una sapiente mediazione diplomatica tra la Domus Augusta e il Senato, ispirando l’azione di conciliazione di Nerone tra monarchia e rispetto della residua libertas aristocratica 5; elaborò dall’altro una teoria di regalità che desumeva caratteri peculiari dal modello del buon re ellenistico, da cui sono desunte il ripudio della tirannia, la clementia del principe e la sua generosa liberalitas.Tuttavia queste qualità pongono il princeps a un livello superiore del potere, da dove esse discendono per sua iniziativa benevola 6. Era questa una concezione ben lontana dalla tradizione oligarchica romana, che non ammetteva la superiorità formale di un individuo sugli altri, o meglio, di un aristocratico sugli altri aristocratici, e che superava in via pressoché definitiva l’ambiguità dell’impianto politico–ideologico augusteo del primus inter pares, benché in un quadro di pacifica collaborazione e cooperazione tra le due anime della res publica 7.

Era del tutto evidente però, che in una prospettiva simile la conservazione del delicato equilibrio tra assolutismo e libertas dipendeva soprattutto dalla capacità diplomatica del principe e dal suo autocontrollo. Nerone dimostrò di essere all’altezza del compito per almeno cinque anni, cioè almeno fino a quando non conobbe la bellissima Poppea Sabina, moglie di Salvio Otone, uno dei suoi più stretti confidenti.

 

La caduta di Agrippina, l’ascesa di Poppea, il ripudio di Ottavia

 

Invaghitosi della giovane nobildonna, Nerone si scontrò immediatamente con la madre, che si oppose fermamente al divorzio e al ripudio di Ottavia. Afranio Burro contribuì a sostenere le posizioni di Agrippina, ma in gioco c’era ben di più di una semplice diatriba familiare. Ben lungi dal ridursi a un mero scandalo domestico o all’ennesimo esempio dell’indole capricciosa dell’autocrate, quest’atto si configurava come una vera e propria scelta dinastica, che escludeva dalla discendenza il ramo claudio della dinastia, con conseguenze tanto più gravi quanto più estese erano le clientele e le alleanze familiari di cui era garante, dalla sua posizione di vertice, il casato di Ottavia. Inoltre era fatto piuttosto noto che buona parte della sua legittimità Nerone la derivasse dalla prima moglie, sorella del “vero” erede Britannico, efiglia del defunto imperatore 8. La stessa genesi della fronda antineroniana che si produsse all’interno della corte e della conseguentesvolta autoritariache caratterizzarono l’ultimo decennio del principato, si potrebbe far risalire a questo episodio, che inevitabilmente avvelenò il clima all’interno dell’Aula Caesaris. La factio che comincia a formarsi a partire dagli anni 59–60 d.C. è rivelatrice di interessi gentilizi e dinastici ancor prima che di generiche forme di insofferenza verso il dispotismo: essa infatti raccoglie personaggidi estrazione politica e di trascorsi affatto differenti i cui elementi unificanti sono la memoria di Claudio e lo sdegno per il brutale accantonamento della figlia Ottavia. Si tratta di una coalizione molto ampia e variegata, formatasi all’inizio del principato di Nerone, e che progressivamente raccolse consensi in ambiti del tutto opposti per interessi politici e ideologia: dal nucleo originario dell’opposizione senatoria, animata dagli homines novi più emancipati politicamente, ai circoli stoici sempre d’ambito senatorio, a parte dell’ufficialità militare (soprattutto quanti avevano militato sotto lo sfortunato generale Domizio Corbulone durante la spedizione in Armenia), agli elementi veteronobiliari superstiti, per arrivare ad alcuni fra i più eminenti cortigiani (come il liberto Pallante), ai familiares e a membri della stessa Domus, prima fra tutti Agrippina. Il riferimento al regno di Claudio, e alla maggiore nobiltà di Ottavia rispetto al consorte, divenivano quindi strumenti per delegittimare Nerone e la sua opzione dinastica. Con grande acume politico, Afranio Burro, prevedendo il rischio di isolamento comportato da  certe velleità del giovane despota e dimostrando una perfetta conoscenza degli equilibri dinastici, disse a Nerone che, se avesse ripudiato Ottavia, avrebbe dovuto restituirne anche la dote, ovvero l’imperium 9. Incapace di comprendere la portata delle sue scelte, o forse avviato inesorabilmente verso un’interpretazione più estrema di quel modello di assolutismo verso il quale lo stesso Seneca lo aveva indirizzato (atteggiamento che sarà confermato dall’interesse manifestato verso i culti solari di origine orientale associati alla monarchia), Nerone si rese protagonista di un drastico e drammatico avvicendamento nella cerchia ristretta dei suoi consiglieri: nel 59 fece uccidere la madre Agrippina, l’anno successivo esiliò Ottavia (eliminata poi tre anni dopo). Seguirono nell’ordine la morte di Burro (62 d.C.) e l’allontanamento di Seneca. Al fianco dell’imperatore emergeva intanto la figura del nuovo prefetto del pretorio, il famigerato Ofonio Tigellino.

 

La svolta autoritaria e la congiura dei Pisoni

 

L’eliminazione di Agrippina, il ripudio di Ottavia e il matrimonio con Poppea innescarono un vero e proprio circolo vizioso: l’allargarsi del dissenso all’interno della corte e dell’establishment rese più verosimile e concreto il rischio di congiure e complotti, credibili o meno che fossero i rumores al riguardo, e ciò non fece che esacerbare la deriva autoritaria del governo di Nerone. A partire dal 62 si susseguono, senza soluzione di continuità, processi sommari e condanne a carico di molti tra i personaggi più in vista della gerarchia politica imperiale. A cadere vittima della rappresaglia del princeps, cui non si sottrasse nemmeno il Senato (che, anzi, si fece a più riprese strumento della repressione), furono nell’ordine:

  • esponenti delle gentes più nobili, la cui eminenza li esponeva al rischio inevitabile di essere considerati capaces imperii, ovvero legittimamente candidabili alla successione;
  • membri dell’opposizione filosenatoria, che auspicavano a un ruolo più centrale e decisivo dell’assemblea dei patres nel governo della res publica e nella scelta del princeps;
  • quadri dell’ufficialità militare, sospettati di sobillare i soldati (a Roma e nelle province) contro l’imperatore.

Spesso i processi extra ordinem divenivano l’occasione per consumare vendette personali o per sbarazzarsi di un avversario politico o di un concorrente. Il quadro che ne deriva è quello di una crisi istituzionale sempre più ampia, la cui escalation culminò infine con veri e propri tentativi di rovesciamento dello status quo. Nel 65 d.C. venne scoperta un’ampia e articolata trama eversiva, facente capo a Gaio Calpurnio Pisone 10. Pisone, console in un anno incerto sotto Claudio, è un personaggio singolare: frivolo e leggero quanto affabile ed eloquente, eccelle nelle arti dell’aristocrazia cortigiana per queste caratteristiche è molto popolare, vicino in definitiva a certa atmosfera neroniana, ma senza gli eccessi delle crudeltà e delle stranezze. Alla cospirazione, insieme a personaggi molto vicini al princeps, aderiscono però anche esponenti della corte legati all’ufficialità militare delle coorti pretorie, i quali propugnano un principato più rigoroso e meno teatrale e stravagante. In ciò essi sono vicini ad alcuni “uomini nuovi”, i quali, ispirati dalle dottrine filosofiche stoiche, accettano il principato, ma in forma etica e non tirannica, e vogliono che il Senato acquisisca una rinnovata dignità 11. Anche altri restano coinvolti, pure se meno apertamente compromessi, come lo stesso Seneca, come il poeta Lucano, o come Petronio, autore del Satyricon; a tutti costoro viene trasmesso l’implacabile invito a suicidarsi 12.

 

La fine

 

Il clima cupo delle congiure di palazzo impresse probabilmente l’accelerazione definitiva alla crisi istituzionale che avrebbe travolto Nerone. Di ritorno dal suo viaggio in Grecia (67 d.C.), durante il quale l’imperatore si era dedicato alle gare poetiche e sportive, che erano la sua vera passione e che gli erano valsi addirittura 1808 primi premi (assegnatigli anche per competizioni a cui non aveva partecipato!), ma che gli avevano anche definitivamente alienato le simpatie dell’élites a Roma, Nerone si dimostrò del tutto impreparato ad affrontare la catastrofe incombente. La sollevazione del governatore di rango pretorio della Gallia Lugdunense (68 d.C.), l’aquitano Giulio Vindice, innescò la mobilitazione dei contingenti legionari. Mentre le truppe di stanza in Germania, nonostante qualche esitazione iniziale, si mantennero fedeli a Nerone e, guidate dal legato Verginio Rufo, repressero la rivolta in Gallia, l’invito alla sollevazione fu accolto invece dal governatore della Spagna Tarraconense, Servio Sulpicio Galba, che accettò l’acclamazione da parte dell’unica legione ai suoi ordini 13 Isolato e senza più appoggi neppure a corte, abbandonato dai soldati e dalla Guardia Pretoriana, Nerone fu dichiarato hostis publicus dal Senato. Non restava altro che la spada: il 9 giugno del 68 d.C., il princeps si uccide 14.

 

Le campagne militari

 

Per quanto la tradizione storiografica abbia contribuito a rafforzare l’immagine di un Nerone poco interessato alle campagne militari e poco incline ai rigori della vita del soldato, durante il suo mandato si contano almeno tre operazioni di considerevole rilevanza, che in qualche modo segnarono in via definitiva il futuro assetto dell’Impero: la campagna in armenia, la rivolta di Budicca e la conquista della Giudea.

La campagna in Armenia (58-63 d.C.): Quale necessaria premessa all’analisi della grande spedizione in Armenia, va sicuramente ricordato quanto avvenuto nel corso del principato di Augusto e quindi di Tiberio: a seguito di una lunga e complicata vicenda dinastica, che aveva visto cadere più di un candidato al trono e a causa della sostanziale ingovernabilità degli equilibri interni alla nobiltà armena, Parti e Romani si accordarono per imporre un candidato comune, il principe partico Vonone I. Questo precario equilibrio di candidati scelti di comune accordo tra Romani e Parti si conservò, con alterne fortune, fino a che perdurò la reciproca volontà di entrambi gli interlocutori di mantenere dei rapporti pacifici. I capricci e gli interessi dei principes che via via si succedevano nell’Urbe condizionavano però in maniera determinante il mantenimento di questa pace fragilissima; considerata la netta supremazia militare romana sui vicini iranici, evidentemente anche l’iniziativa di una guerra non poteva che provenire da Roma. Considerazioni di convenienza politica, interessi economici e velleità di grandeur potevano indurre un imperatore a cimentarsi in un’impresa mai riuscita a nessuno in passato: il passo decisivo in questo senso, l’equivalente di una dichiarazione di guerra, era l’attraversamento dell’Eufrate, e l’occupazione in armi dell’Armenia, che permetteva di aprire un secondo fronte lungo il confine con la Partia. Data la fisiologica instabilità del regno armeno e i suoi problemi dinastici, i pretesti non mancavano. Dal canto loro, i Parti non permisero mai che il passaggio dell’Eufrate avvenisse senza spargimenti di sangue.

Fu proprio Nerone ad aprire un nuovo capitolo nella storia delle guerre partiche. Dal 58 al 63 d.C.  fu affidato al generale Domizio Corbulone il compito di risolvere la questione armena, complicata dall’ascesa al trono di Tiridate III, sostenuto dai Parti (56 d.C.). Domizio Corbulone dunque invase l’Armenia, ponendo sul trono un candidato appoggiato da Roma, Tigrane V (58-60 d.C.) e l’Armenia venne trasformata in un protettorato, con una guarnigione dell’esercito romano presente nel territorio. Tigrane V invase poi l’Adiabene, una regione controllata dall’impero partico mentre nel frattempo Corbulone minacciava un’invasione sul fronte mesopotamico. Tuttavia, la disfatta di Cesennio Peto in Armenia (presso Artaxata, 62 d.C.), determinò un ribaltamento delle sorti della guerra, apparentemente favorevoli ai Romani. Le ostilità si chiusero con il ritiro delle truppe imperiali in Siria e Cappadocia e una soluzione di compromesso della questione dinastica: il riconoscimento del candidato partico, Tiridate, era subordinato all’investitura a Roma e all’accettazione del protettorato romano. Saranno poi i Flavi, e in particolare Vespasiano, a dare almeno parziale stabilizzazione all’area, ridefinendo completamente il sistema difensivo del limes orientale. Nel frattempo, Nerone conseguì un’importante vittoria diplomatica e d’immagine, officiando l’incoronazione di Tiridate nell’Urbe e facendo sedere il sovrano alla sua destra (Svetonio, Vita di Nerone 13), quasi fosse stato un vassallo dell’Impero (66 d.C.)

La rivolta di Budicca (60–61 d.C.): Durante la reggenza neroniana i Romani proseguirono nella conquista della Britannia, senza incontrare ostacoli particolarmente impegnativi. Un’eccezione fu rappresentata dalla rivolta della tribù degli Iceni, sotto la guida della regina Budicca: si trattò probabilmente della più grave sollevazione antiromana nell’isola fino ad allora. Moglie di Pratusago, re degli Iceni, dal quale ebbe due figlie, avrebbe dovuto ereditare, alla morte del marito, una parte del territorio sul quale egli aveva governato. Il resto, dal momento che Pratusago era cliente dei Romani, sarebbe stato incluso nei possedimenti imperiali. Tuttavia, secondo la consuetudine romana, tale diritto si riconosceva ai sovrani alleati solo in caso di presenza di eredi in linea maschile. Budicca protestò e la reazione dell’esercito imperiale fu tremenda: la donna venne spogliata ed esposta, nuda, dopo essere stata frustata; le figlie invece furono violentate dalla soldataglia. Sopravvissuta all’umiliazione, Budicca guidò la rivolta delle tribù dell’Inghilterra orientale tenendo in scacco l’esercito romano, sconfitto a Camulodunum (l’odierna Colchester) e poi a Londinium (l’odierna Londra). Riorganizzatesi, le legioni chiusero i conti con gli Iceni nel 61 d.C., abbandonandosi a una strage indiscriminata. Per non cadere prigioniera dei nemici, Budicca si avvelenò 15.

La conquista della Giudea (66-70 d.C.): Sotto la reggenza di Nerone ebbe inizio anche la cosiddetta prima guerra giudaica, seguita poi da altri due conflitti, durante il principato di Traiano e quello di Adriano). La guerra che portò a una drastica modificazione dell’assetto dell’area, sia dal punto di vista amministrativo e militare sia da quello della natura dei rapporti tra occupanti e occupati. Da quando Caligola aveva cercato di collocare una statua con le sue fattezze nel Tempio di Gerusalemme, scendendo poi a più miti consigli di fronte alla ferma opposizione della popolazione locale, le relazioni tra Romani e Giudei furono sempre caratterizzate da una certa tensione. Questa esplose, trasformandosi in aperto conflitto, a causa della dissennata condotta del procurator Augusti Gessio Floro, che prelevò 17 talenti dal tesoro del Tempio e che represse poi nel sangue la conseguente rivolta della popolazione di Gerusalemme (66 d.C.). Ne seguì una escalation che minacciò di espandersi anche ad Alessandria d’Egitto, dove risiedeva una cospicua comunità giudaica, da sempre in conflitto con la popolazione di origine greca. Inviato a sedare la sollevazione, il legato di Siria Cestio Gallo subì una delle peggiori e più clamorose disfatte della storia militare romana: la legione al suo comando infatti, la XII Fulminata, cadde in un’imboscata e fu decimata dai ribelli, che riuscirono a sottrarre persino le insegne romane. Turbato dalla preoccupante piega degli avvenimenti, Nerone assegnò a Tito Flavio Vespasiano, un homo novus che si era distinto in Britannia sotto Claudio e che aveva seguito il giovane princeps in Grecia, l’incarico di riportare la pace in Giudeae rinforzare il controllo militare dell’area. Alla testa di tre legioni, con l’ausilio del figlio Tito e di Marco Ulpio Traiano Maior, padre del futuro imperatore, oltre che di buona parte dell’ufficialità militare che aveva servito in Oriente agli ordini di Domizio Corbulone, Vespasiano iniziò la paziente opera di riconquista della Giudea, che sarà completata solo con la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio ad opera di Tito nel 70 d.C. Da nuovo imperatore, Vespasiano modificò l’assetto amministrativo della regione, trasformando la Giudea in una provincia imperiale, governata da un legatus Augusti di rango pretorio e presidiata da una legione.

 

Politica sociale, opere pubbliche, riforma monetaria

 

Il giudizio estremamente negativo delle fonti su Nerone è ampiamente spiegabile con la condotta dell’imperatore, tra cui l’evoluzione verso un modello assolutista di matrice orientale - in parte già contemplato nell’impianto ideologico sul quale lo formò Seneca - e la svolta autoritaria del 59-60 d.C. Secondo uno schema frequente nella storia dell’autocrazia nel mondo antico, la conflittualità tra despota e oligarchia aristocratica è spesso controbilanciata da un’alleanza del primo con le classi subalterne, in ragione di un reciproco interesse: il monarca si avvale di un potente fattore di pressione politica nella sua contesa con le classi elevate, garantendo dal canto suo tutela e protezione al popolo di fronte ai soprusi e all’arbitrio cui questo è oggetto da parte degli oligarchi. Non diversa fu la condizione di Nerone, che godette sempre di ottima fama tra la plebe urbana, spesso gratificata con donativi ed elargizioni di grano, oltre che principale destinataria degli intrattenimenti organizzati in grande quantità durante il principato dell’ultimo esponente dei Giulio-Claudii. Oltre che grande appassionato di poesia, Nerone aveva sviluppato un interesse quasi fanatico per le corse dei carri, nelle quali spesso si cimentava direttamente. Il gusto per le competizioni letterarie e sportive lo indusse anche a istituire dei giochi, ad imitazione delle Olimpiadi greche, che chiamò Neronia, e che dovevano avere cadenza quinquennale.

Ad un importante respiro sociale mirava invece la riforma dell’assetto urbanistico della capitale, soprattutto in seguito al devastante incendio del 64 d.C. che rase al suolo più della metà degli edifici della città: delle 14 regiones (cioè “quartieri”) in cui era divisa Roma, 3 furono completamente distrutti, e di 7 non rimasero che pochi ruderi. La tradizione storiografica di matrice senatoria - Tacito e Svetonio in primis - e quella cristiana, hanno contribuito a radicare nell’immaginario dei posteri la responsabilità di Nerone per l’accaduto; sembra ormai invece assodato che il princeps non solo si prodigò moltissimo per soccorrere i feriti e i senzatetto accogliendoli nei suoi giardini, ma che giunse addirittura ad attirarsi l’odio delle classi elevate, facendo sequestrare imponenti quantitativi di derrate alimentari per sfamarli. Quanto poi all’accusa di aver fatto ricadere la colpa sui cristiani, per mettere a tacere le voci che lo volevano come mandante del misfatto, sembra di intuire dalle parole di Tacito che non si trattò di una persecuzione: a essere condannati furono dei rei confessio comunque imputati considerati colpevoli in seguito a processo e che comunque il princeps non avesse fatto altro che farsi interprete - con una condotta senz’altro ispirata a una cinica realpolitik -delle pulsioni forcaiole della plebe, desiderosa di trovare un capro espiatorio 16 Nerone avviò il processo di ricostruzione premettendo innanzitutto un lungimirante piano regolatore, che imponeva il rispetto di alcuni principi fondamentali nella realizzazione di tutti gli edifici: una pianta più regolare e ortogonale dell’assetto viario, larghezza minima più ampia per le strade, distanziamento tra un edificio e l’altro e divieto di pareti comuni, riduzione del numero di piani (fino a un massimo di quattro), vincolo di inserimento di portici per ogni isolato al fine di evitare l’eccessiva esposizione solare, utilizzo di materiali da costruzione non infiammabili. Tali stringenti regole resero ancor più impopolare il princeps tra le classi agiate, da cui provenivano con tutta probabilità gli speculatori edilizi che erano statiindirettamente responsabili della rapidissima propagazione dell’incendio e che, secondo alcuni storici, avrebbero addirittura potuto esserne i mandanti diretti. Approfittando poi della distruzione dell’immensa area edificata tra il Palatino, il Celio e l’Esquilino, e ordinando indiscriminate espropriazioni (anche e soprattutto nei confronti delle proprietà di alcuni ricchi aristocratici), Nerone realizzò in questa zona il progetto di un palazzo che esprimesse in maniera compiuta la sua idea di assolutismo, imitando le residenze reali ellenistiche: la Domus Aurea. Gli architetti Severo e Celere alternarono abilmente i vari ambienti della tenuta con giardini e spazi di disimpegno; fu creato un lago artificiale, e, all’ingresso, fu eretta una statua colossale di Nerone con le sembianze del dio Helios 17. Venne così per la prima volta definito in maniera chiara lo spazio della residenza privata del sovrano rispetto a quello destinato all’uso pubblico e alla rappresentanza, nella direzione di un’ulteriore accentuazione della distanza tra il monarca e i suoi sudditi. Nell’area del Campo Marzio Nerone fece poi erigere il primo complesso termale a pianta simmetrica che diventerà il modello per edifici analoghi successivi. Due grandiose opere si interruppero invece con la morte del loro promotore: il taglio dell’istmo di Corinto, e la creazione del ciclopico canale che avrebbe dovuto collegare Roma al lago Averno.

Ultimo e sicuramente più fulgido esempio dell’interesse dimostrato da Nerone verso gli affari dello stato, che ricalibra l’immagine di un sovrano frivolo o, nella peggiore delle versioni, psichicamente instabile, è sicuramente la riforma monetaria del 64 d.C., che rappresentò per molti successori un modello di riferimento e che fu destinata ad avere un impatto duraturo sulla politica dell’emissione e in generale sull’economia dell’impero: vennero diminuiti il peso della moneta d’oro (da 1/42 a 1/45 di libbra) e di quella d’argento (da 1/84 a 1/96) e anche il contenuto di metallo fino del denarius argenteo. Anche in questo caso si discute su quale sia stata la motivazione del provvedimento e quali le sue finalità; non è improbabile che abbia avuto un peso nella decisione imperiale la volontà di far sì che il rapporto di valore tra la moneta aurea e la moneta argentea (di 1 a 25) fosse meglio corrispondente al rapporto di valore tra i metalli sul mercato, in modo da evitare le speculazioni dei privati, garantendo nel contempo un più cospicuo e regolare rifornimento di mezzi monetari all’economia dell’impero. Ma in ogni caso, quali che fossero le finalità della manovra, è certo che l’imperatore poteva ora coniare un maggior numero di monete da un’invariata quantità di metallo. Aumentava quindi la liquidità per gli onerosi investimenti previsti nel breve periodo, anche se ciò comportava, a lungo termine, un fenomeno inflazionistico.

 

Bibliografia:

 

- M.T. Griffin, Nerone. Fine di una dinastia, Torino, SEI, 1994.
- E. Champlin, Nerone, Roma-Bari, Laterza, 2010.
- M. Fini, Nerone. 2000 anni di calunnie, Milano, Mondadori, 1993.
- M. Pani, La corte dei Cesari, Roma-Bari, Laterza, 2003.
- M. Pani, Lotte per il potere e vicende dinastiche. Il principato fra Tiberio e gli Antonini, in A. Schiavone e A. Momigliano (a cura di), Storia di Roma, Torino, Einaudi, vol. II, tomo 2, 1990.
- A. Barrett, Agrippina: sex, power and politics in the Early Empire, Taylor & Francis, 2002.

1 Come avrebbe amaramente riconosciuto qualche anno dopo un severo censore dei tempi, lo storico Publio Cornelio Tacito, si rivelava così il segreto del potere: “posse principem alibi quam Romae fieri”, ovvero “si poteva diventare principe anche lontano da Roma” (Historiae I, 4).

2 Il figlio di questi, Aulo Vitellio, sarà infatit uno dei quattro imperatori dell’anno 69.

3 Non è forse un caso che proprio Messalina sia la protagonista del sarcastico e sprezzante ritratto di Giovenale nella sua sesta Satira, dedicata appunto ai degenerati costumi morali delle donne romane.

4 La non più giovane nobildonna (aveva 34 anni quando andò in sposa a Claudio, nel 49 d.C.) era figlia di Germanico e Agrippina Maggiore, rispettivamente nipote dell’imperatore Tiberio e di Ottaviano Augusto (per il tramite della madre Giulia Maggiore): nelle sue vene scorreva dunque il sangue di entrambi i rami della dinastia. L’unico ostacolo era rappresentato dalla consanguineità dei due promessi sposi: in quanto fratello di Germanico, Claudio era infatti zio di primo grado di Agrippina. Ancora una volta, gli appoggi influenti giovarono alla matrona: in una seduta del Senato, L. Vitellio difese e sostenne la liceità del matrimonio.

5 Questo aspetto emerge in maniera molto evidente dal discorso di insediamento del giovane principe riportato negli Annales (13, 4) di Tacito.

6 A questo riguardo, in un significativo passo del De Beneficiis (5,4,3), accomunando la figura del princeps a quella del rex, Seneca spiega che il loro “potere preminente poggia sul consenso e sul servizio dei subordinati” (in latino: “reges et principes […] quorum excellens potentia per minorum consensum ministeriumque constat”). Si individua qui chiaramente la matrice stoica dell’idea di monarca, al di sopra di tutto ma al servizio dell’umanità, in uno slancio eroico che imponeva a un grande potere, derivante da una delega divina, altrettanto grandi responsabilità. Si tratta insomma di un monarca detentore di un potere che è ben lungi dall’essere libera licenza e che, anzi, si avvicina più spesso all’idea di servitus, come è testualmente riconosciuto dal filosofo nel De clementia, dialogo dedicato proprio a Nerone, e scritto l’anno successivo all’ascesa di questi al trono[fn]Seneca, De Clementia, 1,8,1.

7 Non era un caso che tale elaborazione si dovesse a un provinciale, un homo novus, espressione di quel ricambio della classe dirigente romana avviato da Augusto, formalmente riconosciuto da Claudio, e compiutamente realizzato dai Flavi, che vedrà subentrare alla vecchia aristocrazia italica le élites provinciali, più lealiste e assuefatte all’idea di monarchia, pur nella forma edulcorata di un principato fondato sul consenso dell’establishment; un principato definito qualche decennio dopo civilis, in quanto vertice funzionale di una gerarchia caratterizzata sempre di più in senso burocratico.

8 Lo confermano le agitazioni popolari, tutt’altro che spontanee, che scoppiarono all’indomani della diffusione della notizia e che spinsero l’imperatore a un iniziale ripensamento (Tacito, Annales, 14, 60,5).

9 Dione Cassio, Historia Romana, 62,13,2.

10 Una seconda cospirazione viene sventata l’anno successivo (66 d.C.): di questo episodio si conosce ben poco, fatto salvo il nome dell’animatore: Annio Viniciano legato alla famiglia dei Vinicii, già protagonisti della fronda che portò alla destituzione di Caligola (41 d.C.), e al tentativo di sollevazione provinciale di Camillo Scriboniano contro Claudio (42 d.C.). Forse, in conseguenza a un suo coinvolgimento in questa congiura, fu costretto a darsi la morte un altro personaggio di importanza cardinale nella storia del principato neroniano, ovvero il generale Gneo Domizio Corbulone, comandante in capo, con poteri amplissimi, della spedizione in Armenia. Era questi una sorta di leggenda negli ambienti militari, potendo vantare una carriera lunga e gloriosa sotto Claudio e poi sotto Nerone; scontava tuttavia anche un complesso di relazioni familiari che lo legavano agli ambienti di opposizione filosenatoria, ivi compreso l’Annio Viniciano animatore della congiura del 66, di cui era suocero. La sua morte, probabilmente non necessaria e inattesa, generò profondo malcontento all’interno dei quadri dell’ufficialità militare superiori e intermedi, che videro all’improvviso sfumare con la scomparsa del proprio patronus ogni aspettativa di promozione e di futura carriera.

11 Tra questi ricordiamo Trasea Peto, Barea Sorano, Musonio Rufo e Annio Pollione.

12 Tale gesto avrebbe infatti evitato il coinvolgimento diretto e ufficiale del princeps, un processo e una condanna per alto tradimento, e il conseguente esproprio dei beni di famiglia.

13 Diversamente da Verginio Rufo, che era un homo novus, Galba era infatti esponente della nobiltà italica di tradizione repubblicana, aveva una carriera gloriosa alle spalle e godeva di buona reputazione sia in Senato che presso i quadri militari, essendo un soldato di lunga milizia. Le fonti testimoniano un’immediata convergenza di buona parte dei comandi provinciali dell’Impero a sostegno della candidatura di Galba.

14 Secondo Svetonio (Vita di Nerone, 44) anche in questa circostanza non manca un dato teatrale: le ultime parole dell’imperatore sarebbero state “Qualis artifex pereo!”(ovvero: “Quale artista muore con me!”. In quanto condannato per perduellio (“alto tradimento”), provvedimento che prevedeva come sanzione la messa al bando quale hostis publicus, il Senato avrebbe dovuto imporre per Nerone anche l’applicazione della damnatio memoriae, ovvero l’erasione del nome e del volto del princeps da ogni iscrizione o rappresentazione statuaria o di altra natura. Di fatto, l’abolitio del ricordo del sovrano riguarda solo l’11 % delle testimonianze epigrafiche e archeologiche che lo riguardano.

15 Le viceden della sollevazione di Budicca sono riportate da molte fonti, tra cui Tacito (Vita di Agricola, 14-16, 15 e Annales 14, 29 -39) Svetonio (Vita di Nerone, 18) e Dione Cassio (Historia Romana, 62, 1-12).

16 Tacito, Annales 15, 44.

17 Quando il palazzo fu raso al suolo, in prossimità del luogo occupato dalla statua fu costruito l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto col nome di Colosseo, come rievocazione beffarda della tracotanza del figlio di Agrippina.